Non si è trattato di un concerto di ma della presentazione del suo libro “La musica dell’occidente” un titolo molti impegnativo per qualunque musicologo e che invece si riduce a un elenco dei brani preferiti dal nostro dei compositori più noti (Monteverdi, Bach, Beethoven, Tschaikovskij, Mahler etc.). Per i fans di Barahmi certamente una testimonianza interessante e poco impegnativa che però molto probabilmente non lascerà traccia nei testi sacri della musicologia. In una sala assai gremita per i numeri del Festival Ciani il nostro viene introdotto dal direttore musicale di Vattelapesca che oltre ad avere sfogliato il libro qualche minuto prima dell’intervista commette l’errore più marchiano per un moderatore ovvero “confessa” che ritiene Barahmi il più grande interprete vivente di Bach (con buona pace – ad esempio – di Angela Hewitt, Andras Schiff etc.): nessuna motivazione critica viene fornita dal nostro Carneade. A Barahmi, al di là del valore discutibile del libro, probabilmente un abile sfruttamento della sua popolarità televisiva, va riconosciuta una notevole proprietà di linguaggio e anche un’abilità nell’intrattenere il pubblico non comune per un artista del pianoforte. Naturalmente molte delle sue affermazioni sono discutibili: indicare Monteverdi come il fondatore dell’opera moderna quando il “recitar cantando” è solo un accoppiamento forzoso di musica e poesia (e Gluck – dimenticato da Barahmi – dove lo mettiamo?), oppure vedere nello stesso Monteverdi un precursore del cromatismo di Wagner quando i presupposti sono lontani anni luce oppure ritenere che nella prima sinfonia di Mahler si trovino brani “kletzmer” sono tutte affermazioni che possono soddisfare un pubblico di bocca buona ma certamente potrebbero fare inorridire i musicologi. Ma tant’è: a coloro cui le apparizioni televisive di Barahmi (che non riesce comunque a entrare nel Gotha dei grandi pianisti anche a causa della sua monocultura bachiana) sono piaciute, il libro potrà interessare. Ma le confessioni musicali di un singolo difficilmente lasceranno il segno. L’intervista è stata anche arricchita da alcune interpretazioni al pianoforte: la prima partita di Bach, alcuni brani trascritti della prima sinfonia di Mahler e il tema delle variazioni Goldberg. Una buona interpretazione nella quale qualche imprecisione si poteva evitare. Grande successo di pubblico.
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Festival Ciani – Cortina
Difficile esprimere il disappunto di chi ha seguito fin dall’ inizio la manifestazione. Il festival ha subito negli anni un progressivo degrado a partire da un inizio di grande classe, con Marta Argerich (innamoratasi di Cortina fino a estendere la sua permanenza), con grandi interpreti, con il teatro pieno in ogni ordine di posti e i biglietti a ruba. Poi nel tempo il calo degli spettatori, la sala ridotta a metà (e neppure in questo caso piena) per evitare l’immagine desolante di un pubblico inesistente, la qualità sempre calante degli interpreti fino alla triste conclusione questo anno; una serie di piccoli concerti tenuti per lo più dagli allievi dell”accademia” (non sempre di grande qualità) con risultati facilmente prevedibili. Il tutto è il risultato di una gestione sventurata, incapace di promuovere adeguatamente l’interesse del potenziale pubblico (che non può essere svanito) negli alberghi, nei paesi vicini etc. Un piccolo esempio della disorganizzazione? Fin dall’inizio del festival mi sono iscritto alla mailing list ma nonostante avere rinnovato ogni anno pazientemente la mia iscrizione non sono mai stato raggiunto da alcuna informazione: può bastare?
Teatro Comunale – 14 Agosto 2014
Come spettatore interessato alle sorti del nostro teatro sarei molto curioso di avere risposte chiare su alcuni temi non secondari in vista dei cambiamenti organizzativi in corso, dei quali si hanno scarse e frammentarie notizie dagli organi di stampa. In primo luogo il rapporto fra teatro Comunale e teatro Manzoni: per quale motivo il teatro Comunale cede al Manzoni una larga parte delle manifestazioni che potrebbero a ragione essere ospitate dal Comunale (Musica Insieme, Stagione sinfonica, Grandi Interpreti, Orchestra Mozart – fino a che è esistita, etc.) lasciando il teatro (uno dei più belli di Italia) inutilizzato per tante serate mentre i costi del personale continuano a correre e – almeno da quanto si sa – la società che ha in affitto il Manzoni non paga regolarmente l’affitto della sala? Il nuovo statuto prevede l’esclusione dal consiglio di indirizzo dei soggetti gravati da oggettivi conflitti di interesse come nella passata gestione? Per quanto attiene al nuovo sovrintendente, fermo restando che la sua nomina è di competenza del ministro, è stata prevista una richiesta di manifestazione di interesse in modo da formare una rosa nell’ambito della quale il ministro possa effettuare la sua scelta? Il sindaco, presidente per legge del consiglio di indirizzo, intende mantenere la sua carica o – come prevede la legge – intende nominare un suo delegato e in caso positivo chi e quando? Potrei continuare ma credo che una risposta a questi punti potrebbe soddisfare la legittima curiosità di coloro che hanno a cuore il futuro del nostro teatro cittadino.
Pavel Kolesnikov – 2 Luglio 2014
Reduce dalla vittoria nel 2012 nell’importante (ma in Italia poco noto) concorso Honens di Calgary il roccioso pianista Pavel Kolesnikov ha debuttato a Bologna nell’ambito della rassegna “pianofortissimo”. Il contesto (il portico del cortile dell’Archiginnasio) non è quello forse più favorevole a una esecuzione raccolta e non ha probabilmente favorito il giovane esecutore che si è impegnato in un programma che ha spaziato da Beethoven a Skrjabin passando per Schubert e Schumann senza trascurare Chopin nei due bis concessi a un pubblico quanto mai poco educato, specialmente al termine dell’esecuzione. L’impressione ricevuta fin dal primo momento (iniziare con la difficilissima sonata “Al chiaro di luna” beethoveniana è un azzardo che solo la spensieratezza e forse un po’ la sopravalutazione dei propri mezzi di un giovane può giustificare) è quella di un pianista per il quale le sfumature, i piani e i mezzopiani, insomma tutte le “nuances” così importanti per quella sonata sono parzialmente trascurate a favore di un impianto più granitico che ricorda per certi aspetti quello del compianto Emil Gilels o del suo compatriota Svjatoslav Richter. Naturalmente una esecuzione di buona qualità ma c’è ancora molta strada per raggiungere la pienezza interpretativa di un Brendel o di uno Schiff. E non va dimenticato che ormai vi sono esecutori che già in età assai giovanile raggiungono una grande maturità interpretativa: si pensi a Blechaz, Trifonov, Yuja Wang etc. (Per inciso suggerisco di ascoltare su Youtube il primo concerto di Chopin registrato da Kissin a 12 dodici anni: roba da non credere!). Le stesse considerazioni si possono utilizzare per i Moments Musicaux di Schubert e i giustamente dimenticati dalla storia musicale e poco interessanti Nachtstücke di Schumann. (Va bene che i brani dei grandi compositori sono spesso caratterizzati da alti e bassi di interesse ma anche il “bonus” Schumann “quandoque dormitat”. Perché piuttosto non rivalutare allora le dimenticate e bellissime “Novellettes”?). Di grande qualità l’esecuzione dei brani di Skrjabin anche perché supportati da una tecnica di altissima qualità (non trascendentale però). Un discorso a parte per i bis chopiniani. Mentre l’esecuzione del notturno è stata all’altezza delle aspettative altrettanto non si può assolutamente dire della mazurka che ha chiuso il concerto. Qui è mancato totalmente lo spirito della composizione trasformata sventuratamente in un valzerino insignificante. La mazurka eseguita è quella nella quale per ben 4 volte si ripete lo stesso piccolo gruppo di note, ciascuno con un proprio diverso significato- come benissimo messo in luce da Alfred Cortot (un pianista che predicava benissimo ma spesso razzolava male) nella sua revisione critica dei brani del compositore di Żelazowa Wola – ripetute in modo insignificante e a una velocità assolutamente fuori stile. Un vero peccato, forse dettato dalla fretta di concludere il concerto con tutto il pubblico sul piede di partenza, ma un finale non degno di un concerto comunque di buon livello.
Così fan tutte – La Scala 19 Giugno 2014
Non sono un fan delle sceneggiature moderne delle opere chiaramente datate ma la messa in scena Salisburghese del “Così fan tutte” è godibilissima, senza sbavature e senza togliere nulla (anzi aggiungendo) alla amara visione del mondo di Da Ponte. I personaggi sono trattati come normali protagonisti della vita quotidiana, con Ferrando (Rolando Villazon) e Guglielmo (Adam Platchetka) come moderni e poi disillusi “bavardeurs” e un ottimo Michele Pertusi nel ruolo senza sbavature del cinico Don Alfonso, spesso collocato in alto su uno dei tre piani della sceneggiatura in una posizione da “Deus ex machina” come il suo ruolo implica. Modernissimo anche il cedimento completo (con evidenti allusioni sessuali) di Dorabella e particolarmente intrigante il finale nel quale prima della riappacificazione finale dell’ultimo momento le due sorelle paiono ancora incerte sui compagni da scegliere, in una visione che trasfigura realisticamente finzione e realtà. Tutti i protagonisti sono vocalmente all’altezza della situazione con una menzione particolare per Fiordiligi (Maria Bengsston) e Guglielmo senza con questo sminuire le prestazioni comunque eccellenti di Ferrando e di Dorabella (Katjia Dragoievic) che rende la figura ambigua e cedevole (solo ufficialmente?) con grande senso dell’umorismo. Nel ruolo accattivante di Despina Serena Malfi che ha dimostrato qualche limite nella voce. Quanto alla direzione di Barenboim (una delle ultime prima della sua dipartita) non si sono più riscontrati quei tempi così allargati (se non saltuariamente) che tanta polemica avevano suscitato nel Don Giovanni di tre anni orsono. Un unico neo: qualche stecca dei corni (strumenti notoriamente maledetti) nel primo atto. Che dire? Uno spettacolo ancora una volta all’altezza della tradizione scaligera che sottolinea purtroppo a così breve distanza di tempo la scadente edizione bolognese. Certamente altri mezzi economici ma c’è da chiedersi se siano solo questi che fanno la differenza…
I "loggionisti della Scala" – 19 Giugno 2014
Fermo restando che la polemica di Pereira contro i “buu” è assolutamente fuori luogo (in tutti i teatri viene utilizzato, compreso il compassato Bayreuth dove uno sciagurato regista del Ring fu giustamente costretto a scomparire rapidamente dietro il sipario – insomma se giustificato,”quando ce vo’, ce vo’ “) c’è veramente da chiedersi se i loggionisti “vil razza dannata” capiscono qualcosa ad esclusione di Verdi (forse) e del repertorio belcantistico italiano. Alla prima del “Così fan Tutte” del 19 Giugno una salva di “shh” ha tacitato gli applausi della superba (ripeto superba) interpretazione dell’aria di Fiordiligi “Come immoto scoglio” del soprano Maria Bengsston, una Fiordiligi che ha nelle sue corde da un meraviglioso pianissimo flautato degli acuti espresso nell’ultima grande aria prima del cedimento finale, ai toni intermedi dei recitativi e delle altre arie. E che dire del silenzio dopo il terzetto perfetto “Soave sia il vento” accolto con un gelido silenzio dal loggione e da un pubblico per lo più di turisti pellegrini la cui competenza ovviamente rasenta il nulla ansiosi solo di arrivare all’intervallo per gli aspetti mondani? Purtroppo questa ignoranza del grandissimo repertorio mitteleuropeo (si pensi anche alla incompetenza su Wagner) rende i loggionisti provincialissimi incompetenti capaci di rovinare anche le migliori esecuzioni: e se provassero a “educarsi”musicalmente un po’?
Così fan tutte – 6 Giugno 2014
Chi si illudesse di assistere a un seguito del bell’allestimento delle Nozze di Figaro del 2013 si ricreda: il “Così fan tutte” del 2014 non ne è neppure la copia sbiadita. Si tratta infatti di uno spettacolino modesto, modesto nell’allestimento e modesto nelle voci nonostante la buona volontà del direttore Mariotti, l’unico che si salva nel grigiore dello spettacolo. Il cast: al di sotto di tutti il baritono Nicola Ulivieri nella parte centrale all’opera del perfido burattinaio don Alfonso, con una voce assolutamente inadeguata e una presenza scenica più da Gastone di Petrolini che da sofisticato sobillatore sotto le spoglie di amico disilluso di Guglielmo e Ferrando. Fiordiligi (Yolanda Auyanet) ha avuto un inizio alquanto incerto e ha solo in parte riscattato la scialba prova nella grande aria finale prima del definitivo cedimento. Meglio di lei – ma di poco- la prestazione di Dorabella (Anna Goryachova) mentre senza lode e con qualche infamia sono risultati gli scialbi Guglielmo (Simone Alberghini) e Ferrando (Dmitry Korchak). Appena sufficiente l’interpretazione di Despina (Giuseppina Bridelli) che non ha comunque brillato nonostante lo sforzo scenico profuso in una parte così accattivante. Quanto all’allestimento scenico, nonostante le molteplici invasioni della platea anche da parte di un coro agghindato come cortigiani del sultano, esso denuncia tutti gli anni che ha sulle spalle e fa rimpiangere ad ogni scena l’allestimento mancato (per motivi economici) di Martone che tante aspettative aveva suscitato. Alla pochezza dell’opera ha poi contribuito la dizione italiana incerta e trasandata di tutti i protagonisti che unita alla incomprensibile assenza dei sopratitoli (ma possibile che non si tenga in considerazione la presenza – finalmente! – di parecchi turisti stranieri?) ha reso per molti impossibile seguire il dialogo allusivo, tagliente e corrosivo di da Ponte. Il pubblico in sala ha tributato pochi e brevissimi applausi all’opera se si eccettuano i ridicoli eccessi finali, confinati in un ben determinato settore dei palchi, di una clacque tanto sgangherata quanto patetica. Una grande occasione mancata del teatro comunale che dopo il disastro di “Qui non c’è perchè” meritava un riscatto che invece è totalmente mancato: non ci resta che sperare nel prossimo Guglielmo Tell.
Orazio Sciortino – 5 Giugno 2014
Impegnato in un programma ben congegnato (la prima parte dedicato alle bagatelle di Beethoven e Bartok e la seconda alle fantasie di Brahms e Skrjabin) Orazio Sciortino (ancora una volta uscito dalla fucina dell’Accademia Pianistica di Imola) ha dato luogo a un concerto di ottima qualità. Il pianismo di Sciortino non concede nulla al virtuosismo fine a sé stesso ma mette al servizio dell’interpretazione una tecnica di prim’ordine. La cosa è risultata chiara fin dall’inizio del concerto iniziato con le bagatelle Beethoveniane op. 126, ultimo lavoro pianistico del compositore di Bonn (se si eccettua la trascrizione a quattro mani op. 134 della grande fuga op. 133) che ne racchiudono in poche battute la dimensione finale e che proprio per la loro apparente semplicità richiedono grande maturità e sensibilità interpretativa. Qui Sciortino ha saputo trovare la giusta misura mettendo in luce tutte le sfaccettature del brevi brani sia a livello di sonorità che a livello dei tempi staccati, tutti perfettamente consoni allo spirito che li sottende. Mentre la bagatelle beethoveniane sono opere dell’ultima maturità quelle di Bartok sono invece opere giovanili: anche qui lo spirito popolare delle composizioni è stato reso senza sbavature. Per quanto riguarda le fantasie della seconda parte il brano di apertura è stata la raccolta op.116, prima delle 4 serie di brani dell’ultimissimo periodo del compositore amburghese che ne raccolgono la sintesi compositiva finale. Ottima interpretazione se si eccettua una certa innecessaria precipitazione nell’incipit del primo e sesto capriccio, mentre con grande espressività sono stati resi gli intermezzi, brani tecnicamente semplici ma nei quali cogliere la giusta misura è cosa non facilecome dimostrano molte delle incisioni che abbondano – ad esempio – su youtube. Il finale del concerto è stato dedicato a un brano di Skrjabin non molto eseguito che però Sciortino ha dominato tecnicamente in modo pressoché perfetto. Un unico bis: la trascrizione (musicalmente non eccezionale) dello stesso Sciortino del Wiegenlied di Richard Strauss. Unica vera pecca la tentazione (ormai troppo frequente) dell’esecutore di spiegare il fil rouge del programma del concerto, un programma più che sufficientemente autoesplicativo.
Pianofortissimo 2014 – 28 Maggio 2014
Anche quest’anno lo sparuto programma comunale estivo dedicato alla musica classica trova il suo punto focale nella rassegna pianistica Pianofortissimo tenuta nel cortile dell’Archiginnasio. Forse influenzato dal trend del Ravenna Festival ben due concerti sono tenuti da pianisti “non convenzionali” (Taylor e Grillo – per quest’ultimo vale il detto “nomen omen“…) mentre sarà molto interessante ascoltare per la prima volta a Bologna giovani come Geniet, Kolesnikov e Campaner. Nella rassegna – come lo scorso anno per Magiera – trova posto anche una vecchia gloria bolognese come Gino Brandi, anche lui in un concerto a geometria variabile (piano a quattro mani e voce recitante): un tributo, forse giustificato, che probabilmente esaurisce finalmente il panorama degli esecutori bolognesi over 75. Un programma tutto considerato interessante anche se le contaminazioni – più volte stigmatizzate anche da Maurizio Pollini – appaiono una concessione innecessaria a gusti più corrivi rispetto a quelli strettamente classici visto che gli spettatori della rassegna non mancano di certo (come testimoniato dal successo dell’edizione 2013).
PS Purtroppo la brochure in inglese della rassegna è macchiata da una sventurata traduzione in inglese maccheronico “de noantri”: non sarebbe il caso di affidare la redazione a un “madre lingua” che certamente non manca a Bologna?
Quartetto Guadagnini – 26 Maggio 2014
Complice una sventurata acustica dell’oratorio di S.Filippo Neri (ma non sarebbe possibile cercare di inserire dei “dampers” per abbassare l’intollerabile livello del riverbero che falsa qualsiasi esecuzione?) la performance del giovane quartetto Guadagnini è stata lungi dall’essere memorabile. In primo luogo l’impasto sonoro è risultato grezzo e talvolta stridente, prova di un’insufficiente amalgama degli esecutori; i tempi staccati negli “allegri” e assimilati sono stati poi innecessariamente precipitati (ad esempio nel quartetto op. 95 di Beethoven, così importante collocandosi fra le sonate op.90 e op.101, insomma nel periodo più pregnante di transizione del compositore di Bonn) e da ultimo la viola anche in parti di puro accompagnamento (ad esempio arpeggi ripetuti) cerca di produrre un esuberante volume di suono quasi nel timore che il suo ruolo sia sottovalutato. Insomma non un quartetto ma un ensemble di quattro strumenti che hanno ancora parecchia strada da compiere per trasformarsi in quartetto nel senso compiuto della parola. Di tutto il programma eseguito si è forse salvata solo l’esecuzione del quartetto di Haydn: non di eccelso livello ma almeno accettabile.
Grigorij Sokolov – 19 Maggio 2014
Dopo la vittoria al Čajkovskij del 1966 a 16 anni, Grigorij Lipmanovič Sokolov ha sofferto un ingiustificato oblio fino all’inizio degli anni ’80 quando la sua carriera internazionale ha avuto quella crescita che lo ha portato ai vertici del pianismo internazionale. Personaggio difficile e scontroso (si pensi alla sua avversione per le registrazioni su CD), cura in modo spasmodico i dettagli dell’esecuzione dei suoi programmi fino a ripeterli ossessivamente identici nell’arco di una intera stagione alla ricerca di una perfezione i cui confini non sono facilmente definibili e per molti aspetti sono una never never land. Ne è in qualche modo una controprova il concerto tenuto per il Bologna Festival, caratterizzato da tre parti ben distinte. Nella prima, l’esecuzione della sonata op. 58 di Chopin, una sonata del 1844, la penultima delle grandi opere composte dal musicista di Zelazova Wola (l’ultima essendo la sonata per violoncello e piano op. 65), la ricerca spasmodica della cantabilità ha finito per svenare l’impasto architetturale dell’opera specialmente nel terzo tempo il cui ritmo esecutivo ne ha allargato la durata fino a snaturarne di fatto l’impostazione. Sia chiaro, bellissime sonorità, pianissimi perfetti ma il tutto in un contesto in cui riusciva difficile seguire il percorso armonico fino a una sorta di manierismo che appare sempre più accentuato nel pianismo di Sokolov. (Con questa impostazione l’esecuzione del terzo tempo dell’op.106 di Beethoven passerebbe abbondantemente la mezz’ora!). Il discorso vale naturalmente anche per gli altri tre tempi e nello specifico per l’ultimo ove la dinamica estrema dei tempi è passata da un “allegretto” nelle esposizioni del tema principale a un “prestissimo” di altre sezioni, una libertà che anche in una visione romantica e libertaria non riflette l’impostazione della composizione. Non abbiamo purtroppo registrazioni delle esecuzioni di Chopin ma dalle sue lettere traspare con chiarezza il rifiuto di svenevolezze esecutive cui il pianismo del primo novecento (si pensi a Cortot) ha cercato colpevolmente di abituarci. Un discorso del tutto diverso vale per le altre due parti del concerto: 10 Mazurke di Chopin e 4 improvvisi di Schubert (offerti come lungo bis, una caratteristica ricorrente in Sokolov come anche nel suo compatriota Kissin). Le Mazurke, proprio per il carattere improvvisativo e la natura “popolare” della loro impostazione permettono certamente libertà superiori a quelle della sonata op. 58, ma qui l’esecuzione assolutamente perfetta di Sokolov ha rinunciato proprio a quegli eccessi riscontrati nella sonata rendendo appieno il significato di queste brevi composizioni Chopiniane, che forse più di ogni altra, corrispondono alla intima personalità del compositore. Da apprezzare la scelta coraggiosa di concludere il ciclo e il concerto con una delle Mazurke più intimiste. Quanto ai 4 improvvisi Schubertiani, al di là di una esecuzione ovviamente impeccabile, è parso che il mondo bidermaierdel compositore viennese non corrisponda perfettamente alla sensibilità di Sokolov: parafrasando una frase anche troppo usata, l’esecuzione potrebbe essere riassunta nella frase “bella senz’anima”. Naturalmente un grande successo di un pubblico maleducato al di là di ogni immaginazione, con rumorosissime tossite che neppure in un sanatorio possono essere riscontrate e con l’abbandono frettoloso della sala al termine dell’ultima Mazurka (chi in occasione di un invito a cena dopo il dolce si congederebbe dall’ospite senza quasi salutare?). Da stigmatizzare anche l’inizio sempre ritardato del concerto (tipico del Bologna Festival per venire incontro al pubblico modaiolo ritardatario che popola il festival – manco fossero i membri del Jockey Club parigino tanto odiati da Wagner) e un intervallo di oltre 30 minuti per permettere lo sviluppo delle relazioni sociali. Ma quando anche Bologna smetterà di essere una piccola provincia adottando quelle regole che caratterizzano le sale serie dei concerti di tutto il mondo?
Elektra – La Scala 18 Maggio 2014
Elektra di Richard Strauss (libretto di Hugo Hofmannstahl), che ha caratterizzato all’epoca della sua composizione molte controversie e in particolare l’accusa infondata di plagio dell’opera Cassandra di Vittorio Gnecchi (assai interessante fu nel 2012 l’allestimento di entrambe le opere nella stessa serata della Deutsche Oper di Berlino – peccato non ne venga fatta menzione nel libretto di sala), è opera della maturità dell’autore che rende perfettamente l’atmosfera di cupo terrore che sottende l’azione. Un’opera breve ma intensissima che vede Elektra sulla scena durante tutta l’ora e mezza dello sviluppo scenico. Il testo di Hofmannstahl è più drammatico e cupo di quello sofocleo, in esso la musica di Strauss assume toni per certi aspetti espressionistici, certamente più drammatici di quelli della Salome, attraverso un cromatismo esasperato: qui la tragedia si sustanzia nella disperata pulsione alla vendetta di Elektra e ancor più nella disperazione di riuscire persino a compiere da sola, personalmente l’opera purificatrice. Seppure il riferimento è alla tragedia di Sofocle la storia riconduce all’Agamennone di Eschilo che trova nel linguaggio ancestrale eschileo la giusta dimensione tragica. Il cast scaligero è stellare: Evelyn Herlitzius come Elektra che assomma a eccezionali qualità canore un’arte scenica assolutamente fuori dal comune (si veda ad esempio la scena della danza bacchica finale), Waltraut Meyer (infinite volte Isotta) che offre ancora una volta una magnifica prova nell’interpretazione del personaggio tragico e al contempo altero e malvagio di Klytämnestra. René Pape come Aegisth e Adrianne Pieczonka come Chrysothemis sono perfettamente a proprio agio nelle brevi ma intense parti loro affidate nell’opera. Esa-Pekka Salonen semplicemente perfetto. E lo strepitoso, meritatissimo successo (15 minuti di standing ovations per tutti) è poi dovuto alla regia del compianto (e da Lissner commemorato prima dell’inizio) Patrice Chéreau che in una scena spoglia, quasi da architettura metafisica, fa muovere i personaggi come in una sorta di arena claustrofobica (ove alcune porte sono persino chiuse a chiave) che sustanzia perfettamente la tragicità del testo e della musica di Strauss. Assolutamente corretto appare anche l’accenno registico, durante il racconto degli incubi di Klytämnestra, alla duplice pulsione di figlia e di vendicatrice di Elektra, non specificamente indicato nel testo ma che rientra nell’interpretazione della combattuta e multiforme personalità di Elektra. Ancora una volta un vero trionfo della Scala.
Waltraut Meyer e Evelyn Herlitzius (dal libretto di sala)
Mikhail Pletnev – 13 Maggio 2014
Avevo ascoltato Mikhail Pletnev l’ultima volta alcuni anni fa in una sciagurata esecuzione della Fantasia op. 17 di Schumann e ammetto di essere arrivato al concerto prevenuto. Ma in modo intellettualmente onesto debbo rovesciare il mio giudizio. Pletnev ci ha offerto un concerto di grande qualità che ha spaziato da Beethoven a Skrjabin passando per le pochissime (e a ragione) frequentate Humoreske di Schumann. Di scuola slava ne ritiene tutte le caratteristiche (ampia dinamica, espressività al limite dell’arbitrio) ma con una coerenza stilistica che comunque porta a grandi risultati. Il pianismo di Pletnev si fonda su una base tecnica solidissima (si vedano i preludi di Skrjabin e alcune delle Humoreske) sulla quale è costruito un percorso interpretativo convincente. Particolarmente felice è risultata l’esecuzione della sonata op. 31 n. 2 (“La tempesta”) di Beethoven che ne ha colto le intrinseche contraddizioni. Forse il meglio del concerto si è avuto nel bis costituito da un notturno di Chopin eseguito semplicemente alla perfezione. Insomma un pianista che ove mantenga il profilo esecutivo riscontrato vorremmo riascoltare quanto prima. Grande successo di pubblico e larga partecipazione di giovani che opportunamente tenuti sotto stretto controllo da due “occhiute” maschere non hanno dato luogo a quei comportamenti inadeguati riscontrati in analoghe precedenti occasioni permettendo loro, forse, di avvicinarsi a un settore musicale ad essi per lo più ignoto.
Arkadij Volodos – 12 Maggio 2014
Arkadij Volodos appartiene a quella purtroppo non folta schiera di pianisti che su una tecnica trascendente hanno saputo costruire un percorso di grande musicalità capace di tenere a freno e incanalare musicalmente l’esuberanza tecnica che fa invece di molti “giovani leoni” dei ginnasti e non dei pianisti (anche se da un pubblico poco smaliziato ottengono ridicole “standing ovations” magari a mani alzate – perché poi una così ridicola esibizione, provincialmente solo italiana?). Il programma tutto “classico” ha visto di Schubert la pochissimo frequentata sonata incompiuta op. D 279 con l’Allegretto (indebitamente considerato come suo ultimo tempo), i sei brani op. 118 di Brahms e di Schumann le Kinderszenen op. 15 e la Fantasia op. 17: un programma che spazia su tutto l’800 pianistico come è tradizione di Volodos. Rispetto al concerto di due anni orsono si nota nel pianismo di Volodos una certa involuzione che tende a premiare sempre più gli aspetti tipici della scuola slava ovvero un eccesso di dinamica e di artifizi interpretativi (pause lunghissime, pianissimi e fortissimi) che pur nell’ambito di un’esecuzione di alto livello non appaiono in linea con la coerenza stilistica necessaria a una interpretazione perfetta. Mentre nella prima parte l’esecuzione dei brani di Schubert è risultata di altissima qualità, altrettanto non si può dire dell’opera 118 di Brahms, una delle ultime raccolte pianistiche del compositore amburghese che costituiscono la “summa teologica” del suo percorso compositivo. Brani di grande intimismo dai quali debbono essere rigorosamente banditi eccessi esecutivi che invece hanno contraddistinto l’esecuzione di Volodos. Sia chiaro: l’ultimo Brahms è compositore perfetto per pianisti al crepuscolo della loro carriera e non ho dubbio che per il pianista russo vi sia “a big room for improvement” e sarà interessante seguirne l’evoluzione. Quanto ai brani schumanniani Volodos ne ha messo in risalto le più nascoste sfumature (ad esempio nella Kinderszenen) senza rifuggire dall’uso delle sue grandi doti tecniche (ad esempio nel finale del secondo tempo della Fantasia i cui salti costituiscono una delle bestie nere a grande rischio di tutti i pianisti). Un concerto di ampio respiro (più di due ore di musica) seguito da tre bis: grande successo di pubblico a coronamento della stagione 2013-2014 di Musica Insieme.
Stagione Musica Insieme 2014-2015
Una stagione assolutamente nel solco della tradizione di Musica Insieme. Grandi nomi inframmezzati da concerti di più modesta levatura, anche se mediamente di caratura superiore a quella che ha contraddistinto le ultime stagioni. Un gradito ritorno è quello dopo molti anni dei violoncellisti Lynn Harrel e Natalia Gutman mentre viene finalmente colmata un grave lacuna bolognese: quella del pianista Yundi, vincitore dopo 15 anni di non assegnazione del concorso Chopin del 2000 che ha tenuto un giustamente applauditissimo concerto al Circolo della musica di Imola nella corrente stagione. Sarà certamente interessante ascoltare nuovamente Mariangela Vacatella che sta percorrendo a ragione una carriera di tutto rispetto. Unica veramente grave lacuna è l’assenza di un concerto Liederistico: sarebbe opportuno che per dare un tono europeo e non provinciale alla stagione venisse preso in considerazione anche questo genere che in tutti i paesi europei (e anche nelle maggiori città italiane – si pensi solo alla Scala) costituisce un asse portante della cameristica. Vox clamantis in deserto?
Tristan und Isolde – Firenze Teatro Comunale 11 Maggio 2014
I due protagonisti sono calati in una cupa atmosfera senza tempo, caratterizzata da un filo di sabbia che cade dal soffitto per tutta l’opera (una sorta clessidra infranta?) e da un globo prima luminescente poi incrinato che ricorda vagamente il Fellini di “Prova d’orchestra” (senza abbattersi però). Difficile decifrare il suo significato. Nessun riferimento scenografico alla nave ma un doppio livello scandito da una piattaforma inclinabile utilizzata ora da Tristan ora di Isolde, usata come paradigma della distanza fra il desiderio e l’impossibilità della passione dei due protagonisti, della distanza fra le pulsioni dell’animo e il dovere verso Marke che porta Tristan a guidare lui stesso il pugnale di Melot che lo ucciderà. Costumi oscuri, umanità dolente che si muove lentissimamente per sottolineare la atemporalità dell’azione e la visione ultraterrena dell’opera che riflette la sensibilità wagneriana di “eros” e “thanatos” con la notte come unico scenario nel quale la passione dei due protagonisti trova la propria cifra. Notte come annientamento dell’essere e trionfo, trasfigurazione e sublimazione delle passioni terrene che nella loro vocazione cosmica non trovano nella luce l’habitat nel quale svilupparsi. Di certo l’impossibilità di un amore senza speranza che nel rapporto ambiguo di Wagner con Mathilde Wesendonck trova una sua radice sia culturale che armonica (non si dimentichi che l’incipit del terzo atto deriva dal Lied “Im Treibhaus” e che molte parti del duetto del secondo atto riflettono lo sviluppo del Lied “Träume”). Un’impostazione scenica quindi non assolutamente condivisibile ma certamente coerente e accettabile. Peccato che il testo wagneriano così pregnante venga tradotto in modo sciagurato in italiano (qualcuno ad esempio ha mai sentito il verbo “smorire”, e da quando in qua “arridere” è transitivo?): molto meglio (anche se non perfetta) la traduzione inglese. La direzione di Mehta (osannata da un pubblico che lo vede come proprio beniamino) è apparsa nella norma con alcuni languori innecessari (si pensi ad esempio al preludio del primo atto, nel quale certamente protagonista non è lo sviluppo di un pensiero armonico ma il cromatismo esasperato come metafora della tragedia dei due protagonisti che nulla può concedere a tempi allentati). Quanto ai cantanti, tralasciando Kurwenaal reduce da una influenza che ne ha ridotto le capacità vocali, il meglio è fornito da Stephen Milling come Marke, un basso con una vocalità piena e una grande espressività. Nella norma la Brangäne di Julie Rutigliano mentre Isolde (Lioba Braun) ha dimostrato dei limiti non secondari nel registro acuto e segnatamente nel secondo atto. Le va però dato atto di una interpretazione eccellente del finale dell’opera (incoerentemente noto come “Morte di Isolde” che però a morire non ci pensa nemmeno!). Quanto al Tristan di Torsten Kerl non è apparso all’altezza della situazione in quanto dotato di voce non wagneriana che nella complessissima partitura non ha mai trovato la impostazione giusta. Non che si sia trattato di un disastro ma solo di un interprete che non è a suo agio nel repertorio wagneriano e che probabilmente dà il meglio di sé in altri contesti. Ovviamente grande successo e – nota molto positiva – un pubblico con molte presenza giovanili, una segnale molto incoraggiante per un settore che nel calo del pubblico vede una delle cause della propria crisi.
Andras Schiff – 6 Maggio 2014
Era dal Giugno del 1979 (Maurizio Pollini – Royal Festival Hall di Londra) che non assistevo a un concerto avente come bis un’intera sonata di Beethoven (allora si trattava dell’op 81 “Les Adieux”). Andras Schiff ha infatti eseguito come bis l’op. 57 (“Appassionata”) concludendo un concerto già di per sé estremamente impegnativo, anche fisicamente, costituito dalla sonata op. D.959 di Schubert e dalle Variazioni su un tema di Diabelli op. 120 di Beethoven. Purtroppo ad ascoltare uno dei massimi esponenti del pianismo internazionale c’era una sala la cui platea era per un terzo vuota, un segnale che dice molto della sensibilità del pubblico bolognese e segnatamente di quello del Bologna Festival: a questo proposito si può ricordare che per i concerti di Schiff alla Società del Quartetto di Milano, la cui sala ha una dimensione di un 20% maggiore del Manzoni, non si trova uno solo posto vuoto e i biglietti sono esauriti con grande anticipo. Un concerto di Schiff è la certezza di una performance di altissimo livello nella quale anche i minimi dettagli sono curati con la massima attenzione, come testimoniato anche dalla scelta di due pianoforti diversi: un Bösendorfer, con il suo suono più rotondo e vellutato per Schubert, e uno Steinway dal suono più marcatamente brillante per Beethoven. Sulle esecuzioni si può soltanto ripetere ancora una volta che i due autori sono completamente connaturati con la sensibilità artistica di Schiff che ne sviscera senza inutili virtuosismi l’essenza più profonda. Il pianismo di Schiff è di natura apollinea, nel quale la cura del suono e la ricerca delle più intime sfumature dei brani eseguiti si inquadra in un rigore formale e stilistico che ripercorre in modo autonomo le orme di Alfred Brendel e più recentemente quelle di Radu di Lupu (che ha recentemente eseguito per Musica Insieme la stessa sonata di Schubert). Alcuni aspetti hanno costituito una certa novità: ad esempio il tempo staccato per il valzerino di Diabelli è stato di una velocità inconsueta e caratterizzato anche da una fortissima sottolineatura delle triadi di terza e quinta di do maggiore, fatto ripetuto anche nel corso delle variazioni con un effetto non sempre positivo, soprattutto dal momento che nessuna specifica indicazione dinamica è presente nella partitura Beethoveniana. E poiché nessuna esecuzione è perfetta è parso anche che alcuni voluti disallineamenti fra mano destra e sinistra non abbiano arrecato alcun beneficio all’impianto esecutivo dei brani. Forse l’esecuzione meno felice è stata quella dell’Appassionata. Qui la visione celestiale e quasi ultraterrena delle esecuzioni di Schiff si scontra con il fuoco e persino la violenza della partitura Beethoveniana e questa disarmonia è risultata particolarmente evidente nel rondò finale ove la ricerca della poesia avrebbe potuto e dovuto lasciare il posto all’irruenza del brano che è invece mancata e segnatamente nel presto finale. Ma, come si dice, avercene degli Schiff…!
Le Troyens – Milano La Scala 26 Aprile 2014
“Infandum iubes regina renovare dolorem” è il terzo esametro del secondo libro dell’Eneide che si può considerare l’inizio virtuale di questa opera (divisa in due parti La prise de Troye e Les Troyens à Carthage) anche se lo sviluppo temporale previsto da Berlioz non ricalca fedelmente il dettato virgiliano (specialmente per la collocazione temporale delle vicende a Cartagine) e il suicidio collettivo delle troiane non si trova nel poema. Un classico “grand opéra” di Berlioz, genere operistico che ha dominato la scena francese fra gli anni venti e gli anni ottanta dell’Ottocento, in quello stile iniziato da Meyerbeer, tanto amato da Heine quanto vituperato da Schumann, lo stesso genere che faceva imbestialire Wagner quando vedeva entrare al secondo atto (della “sua” opera, il Tannhäuser) i membri del Jockey Club che si presentavano infatti solo al momento del balletto (ingrediente indispensabile del grand opéra) anche se quest’ultimo è assente, ovviamente, nel Tannhäuser.

(caricatura ripresa dal sito “Di tanti pulpiti” http://amfortas.wordpress.com)
Opera gigantesca, che cerca di dare corpo all’Eneide, che l’autore non vide mai in versione completa, della durata di 5 ore e mezza (concorrenza spietata a Wagner) e che alterna sezioni molto belle (ad esempio il duetto Enea-Didone, la disperazione e morte di Didone) a momenti di oggettiva stanchezza: un’opera comunque musicalmente meno riuscita, a giudizio di chi scrive, della “Damnation de Faust” dello stesso autore. Per un inquadramento storico-letterario-musicale de Les Troyens può essere interessante (anche se non totalmente condivisibile) leggere l’articolo di Paolo Isotta sul Corriere del 7 Aprile (pagina 29). Ciò detto bisogna però riconoscere che l’allestimento é di quelli che saranno ricordati nel tempo. Magnifiche le scene di Es Devlin (il cavallo di Troia e il guerriero vendicatore del finale riassumono perfetttamente la violenza dell’azione), magnifico il coro, magnifica l’azione teatrale. Non una sbavatura in tutta la durata. Nel cast di 20 interpreti, tutti di ottima qualità, svettano Anna Caterina Antonacci (Cassandra) e soprattutto la magnifica Daniela Barcellona (Didone) che in modo stupefacente riesce a migliorare ulteriormente ad ogni rappresentazione. Di altissimo livello (smaccatamente applaudito da un clacque più rumorosa del solito) l’Enea di Gregory Kunde. Al successo dell’opera contribuisce con la sua maestria in modo determinante Antonio Pappano, sempre perfettamente addentro stilisticamente e musicalmente allo spirito della composizione, le coreografie di Lynne Page (non va dimenticato il ruolo primario del balletto nel grand opéra) e la regia di David McVicar. Insomma uno spettacolo grandioso all’altezza della tradizione della Scala che rimane l’alfiere italiano della musica internazionale e che – grazie anche ai poderosi finanziamenti di molte volte superiori a quelli delle altre fondazioni liriche – presenta sempre produzioni di eccezionale livello.
Qui non c’è perchè – 24 Aprile 2014
Si spengono le luci (e tacciono le voci..) e accompagnati da un furioso suono apotropaico di percussioni (si contano più di 7 timpani sul palcoscenico) unito a uno strepitio dell’orchestra diretta da un Andrea Molino in costume da biscazziere de “L’uomo dal braccio d’oro”, si presentano due lottatori vestiti di rosso e inondati da una luce rossa che si “combatteranno” in modo ossessivamente ripetitivo per circa 15 minuti. Poi dal cielo viene scaricata una massa di cartacce e altri rifiuti che provocano un gran polverone dal quale (piuttosto malconci) emergono due saxofonisti e la voce recitante (pomposamente indicata nella presentazione come “Vocal Soloist” col difetto che di vocal non se ne vede traccia), agghindato con una giacca bianca improbabile con strisce blu, il quale da un calepino da cui non si separerà per tutta la rappresentazione recita a mo’ di litania alcune frasi in inglese (notato un errore nel testo con un “which” al posto di “what”) inizialmente incomprensibili ma via via più intelligibili anche se il nesso fra loro sfugge ai poveretti di cui fa parte l’estensore di questa recensione. La musica dell’orchestra continua imperterrita (cosa che farà fino al calar del sipario) ma senza i timpani. Si presenta poi una torma di giovani invasati che in modo del tutto scomposto spostano i rifiuti fino a una scena conclusiva nella quale essi (rifiuti) vengono lanciati contro un muro (una versione europea del lancio di sassi contro le tre steli che rappresentano il diavolo dell’Hajj musulmano?). Nel contempo visions fugitives di Bologna con alcuni volti che compongono la frase del titolo della composizione (preso dal libro di Primo Levi Se questo è un uomo): si noti che pochissimi riferimenti all’olocausto vengono presentati nel prosieguo dell’ “happening” (un paio di citazioni di Anna Arendt). Poi i saxofonisti si spostano in sala e il “soloist” continua a snocciolare pillole di filosofia scorrelate. Tralasciando ulteriori dettagli (la pièce non si fa mancare nulla; “par dessus le marché” si assiste persino a un infanticidio!) è da rimarcare che a un certo punto dell’azione scenica (mi spiace, ma la parola “opera” in questo contesto non mi riesce di utilizzarla) le frasi sui grandi problemi del mondo (vita, morte, moralità, giustizia etc.), sempre prive di correlazione, vengono poi pronunciate dal coro dei giovini al cui interno si trova una citazione dal Macbeth shakespiriano (Life is but a walking shadow, a poor player..): peccato che dopo tanto inglese ne venga usata una non troppo felice traduzione italiana (ricevuto SMS dal buon William con epiteti elisabettiani irripetibili)! Dopo 90 minuti cala il sipario e dal 50% della sala vuota a più del 50% – palchi caratterizzati da vuoto pneumatico- insomma dalla ben nota claque che non ha pagato i 140€ del biglietto di platea, si elevano alcuni flebili battimani che naturalmente verranno recensiti come successo strepitoso (ho in mente almeno due noti personaggi che si accoderanno alle lodi sperticate). In questo caso spiace che il Teatro Comunale di Bologna e i suoi ultracompassati spettatori non abbiano la tradizione dei loggionisti come alla Scala o al Regio di Parma per intonare i meritatissimi “buh”. Uscendo mi sono ricordato della fantastica frase di Fantozzi dopo l’ennesima visione de La corazzata Potemkin…. Di fronte a questo tipo di spettacoli, a prescindere dalla loro imperdonabile pretenziosità musicale e letteraria, ci si chiede cosa ci facciano in una stagione d’opera quando in realtà assai meglio – durata a parte – troverebbero una loro giustificata collocazione come installazione in Artefiera. Sia chiaro: nulla contro l’opera moderna (si pensi alle bellissime opere di Britten, quali ad esempio Billy Budd o The turn of the screw nelle quali musica e testo hanno un loro significato, uno sviluppo coerente pur in presenza di serie dodecafoniche) ma quando un’azione scenica è brutta e insignificante bisogna avere il coraggio di conclamarlo ad alta voce, ben sapendo che alcuni estemporanei soloni per accreditarsi come profondi conoscitori dichiareranno estasiati di avere assistito al più importante evento teatrale della stagione. E le piroette linguistiche senza costrutto in questo caso si sprecheranno (come spesso accade per l’arte moderna) con gaudio del “compositore”: diceva Andreotti che non è importante che si parli bene o male di una cosa, la cosa importante è che se ne parli!!! Ebbene in questo caso mi sento senza remore come il Béranger de Les rhinocéros di Ionesco e che le truppe cammellate della presupponenza travestita da estrema competenza, guidate dal direttore artistico del Comunale che ha voluto la composizione di Molino, avanzino!!!
PS Aggiunta di sabato 26 Aprile: su la Repubblica di Bologna si arriva a citare lo scandalo provocato dalla prima de “Le sacre du printemps” di Stravinskji (e allora per non farsi mancare nulla si potrebbe addirittura citare la “prima” della grande fuga op. 133 di Beethoven) per comparare il diffuso dissenso verso la composizione di Molino: ecco un buon esempio del virgiliano “Si parv(issim)a licet componere magnis…”. Un bel coraggio!!! E certo sarebbe interessante in tempi di vacche magrissime sapere quale è stato il costo complessivo dell’operazione se si tiene conto che la “cosa” è stata commissionata (ovvero interamente pagata) dal Teatro Comunale cittadino…….
Cappella Savaria – 16 Aprile 2014
Complesso a geometria variabile, con alcuni strumentisti in veste solistica, ripercorre la strada della esecuzione filologica, suonando in piedi (una prassi ormai consueta il cui fondamento e vantaggio mi è ignoto) e con strumenti d’epoca che si concretizza soprattutto nell’uso di fiati senza tasti (nel caso degli archi si limita ovviamente all’archetto con la punta allungata). Il discorso dell’esecuzione filologica merita una qualche considerazione. Innanzitutto bisognerebbe misurare il risultato musicale ottenuto e valutare se la scelta apporta un qualche vantaggio o non si tratta invece di intellettualistica vocazione a ricostruire un passato che è appunto ormai passato. (In questa ottica vi sono state persino fantasiose ipotesi di archetti ricurvi per eseguire all’unisono gli accordi delle composizioni per violino o violoncello solo di Bach!). Per ardore filologico si azzarderebbe oggi qualcuno a suonare sul “clavicembalo con il piano e il forte” di Bartolomeo Cristofori? Sarebbe certamente interessante conoscere quale sarebbe il giudizio che ne darebbero i compositori se risorgessero dal loro riposo eterno. Personalmente non ne trovo alcuna giustificazione. Si pensi soltanto al caso del corno, strumento difficilissimo da domare anche oggi nonostante sia ora dotato dei pistoni: nel primo concerto brandeburghese ove giocano un ruolo fondamentale i due poveri strumentisti con il corno barocco hanno fatto del loro meglio ma il risultato è stato quasi sempre un suono stridulo e non infrequentemente di intonazione molto incerta. Necessario? Lo stesso dicasi per il secondo brandeburghese: qui il flauto a becco solista – anche per responsabilità dell’esecutore – ha quasi costantemente massacrato tutti i suoni acuti quando l’emissione richiedeva un suono di forte intensità. Ovviamente nulla da dire per gli altri due legni, l’oboe e il fagotto, che nella versione barocca offrono un suono che poco si discosta da quello moderno. Ciò detto, un giudizio complessivo della formazione cameristica in un programma che non poteva essere più tradizionale: i sei concerti composti da Bach per il margravio (marchese) di Brandeburgo che non ebbe mai l’occasione di ascoltarli. Una esecuzione di buona qualità che si muove nel solco di quella assolutamente tradizionale (nulla a vede con gli eccessi – ad esempio – della Kremerata Baltica di Gidon Kremer) e che ovviamente è stata accolta con un buon (non travolgente) successo dal non foltissimo pubblico in sala.
Alexander Gadjiev -10 Aprile 2014
Un programma che ha spaziato da Chopin a Prokof’ev passando da Skrjabin che, parafrasando al contrario quanto scritto per Lupu, è stato affrontato abbondando in quantità e assai meno in qualità. Il pianismo di Gadjiev pare costantemente assillato dalla fretta di raggiungere i passaggi atleticamente più impegnativi dove scaricare una potenza di suono che però sommerge la linea melodica che anche in tali brani esiste e che è compito primario del pianista sottolineare. Un esempio (fra i tanti che si possono citare) si trova nell’esecuzione della fantasia op. 49 di Chopin: nelle due esposizioni del tema principale (se così si può chiamare) sono presenti alcune battute di marcia che sono state eseguite frettolosamente cancellando il loro importante significato musicale di introduzione al passaggio successivo. Lo stesso errore nella ballata n.4: qui al fine di sottolineare una qualche espressività della linea melodica si è assistito a un costante “stop and go” nell’ambito della stessa frase musicale che certamente non è indicato da Chopin, che probabilmente non sarebbe stato apprezzato dall’autore e che in ogni caso interrompe la ampia espressività del complicato, intricato e misterioso brano (si pensi solo al contrasto fra le luminose battute inziali in do maggiore improvvisamente seguite dalla tonalità di fa minore che qualche ignorante del temperamento di Werkmeister definirebbe come “oscura”). In Skrjabin e Prokof’ev vale quanto scritto precedentemente: una tecnica probabilmente di ottima qualità viene sovrastata da un volume di suono che anziché valorizzarla la deprime a insignificante studio tecnico. E dire che nelle due sonate di Skrjabin e Prokof’ev non mancano importanti e significativi cantabili (uno su tutti: il secondo tempo della sonata di Prokof’ev). Il punto di eccellenza del concerto si è avuto nel secondo bis eseguito: lo studio di terze op. 25 di Chopin. Qui finalmente il lato tecnico (che c’è ed è assai impegnativo) ha lasciato il passo all’espressività con un ottimo risultato. Ma è poco nell’ambito di un intero concerto. L’esecutore è giovane e ha ampie possibilità di miglioramento che però è possibile se viene ancora guidato in modo sapiente, se ha la capacità di controllare la propria esuberanza e se ha l’umiltà di ascoltare e rielaborare gli esempi dei grandi esecutori (ad esempio l’esecuzione della sonata di Prokof’ev da parte di Maurizio Pollini).
Radu Lupu – 8 Aprile 2014
Recensire il concerto di un interprete che negli anni ha segnato la storia del concertismo pianistico è sempre un problema nel senso che non si sa se si deve essere condiscendenti per quanto fatto nel passato o freddamente imparziali davanti al presente: non è il caso di Radu Lupu che ha offerto uno splendido concerto basato su opere di Schumann e Schubert. In termini un po’ grossolani si può affermare che Lupu ha gadagnato in qualità quello che ha perso in quantità. Il suo pianismo è ormai un distillato di saggezza che può permettersi di allargare i tempi senza che ne scapiti l’interpretazione ove tutto si dipana in toni per lo più tenui ma mai stucchevoli, con un mirabile equilibrio che estrae dai pezzi eseguiti tutto il significato musicale in essi contenuto, rispettando e valorizzando l’opera compositiva. Le Kinderzenen di apertura sono state mirabili anche perchè in un brano soffuso di malinconia e di riminiscenza di un passato ormai remoto sono stati evitati certi eccessi dimanici (ad esempio nel terzo brano) che spesso contraddistinguono le pur belle interpretazioni di altri esecutori, rendendo appieno il senso favolistico che sottende tutta la composizione. Un discorso simile vale per i Bünte Blätter che hanno fatto seguito alle Kinderzenen. La sonata schubertiana postuma eseguita nel secondo tempo è uno dei cavalli di battaglia di Lupu. Qui il sentimento ha avuto la più larga espansione: se proprio un appunto si deve fare è che il primo e ultimo tempo meritano a giudizio di chi scrive una maggiore dinamica, ma ce ne siano tempi allargati come quelli di Lupu! L’intero mondo schubertiano con le sue contraddizioni, con i momenti di intenso lirismo seguiti da improvvise ma brevi esplosioni dinamiche, le lunghe code dei vari movimenti hanno trovato in Lupu la dimensione musicale perfetta, che solo un grande saggio della musica che negli anni ha distillato la propria maestria, è in grado di rendere. Speriamo di risentirlo presto a Bologna, magari in un programma brahmsiano, un altro degli autori in cui eccelle.
Grassi-Flaksman-Quaranta – 7 Aprile 2014
Credo di avere finora commesso un errore nella redazione dei miei posts: ho posto l’asticella della valutazione sempre alla stessa altezza. Probabilmente invece i concerti debbono essere valutati in relazione all’ambito e al pubblico cui sono rivolti. Esistono i concerti di alto livello e quelli – godibili se considerati nel loro contesto – di medio livello. Preceduto da un battage pubblicitario provincial-campanilistico un po’ sproporzionato il trio Grassi-Flaksman-Quaranta, in versioni variabili (ovvero con organico variabile, cosa da me sempre deprecata, pur essendoci sufficiente – non abbondante – letteratura per l’organico completo, ad esempio il trio op. 11 di Beethoven, il trio op. 3 di Zemlinsky o le trascrizioni di Mendelssohn etc.), ha offerto una prestazione (breve, 60′) di medio livello locale forse destinata a non restare negli annali della musica ma proponendo un programma interessante, centrato sulle ultime opere cameristiche di Brahms. Sono stati infatti eseguiti il trio op. 114 e la seconda delle due splendide sonate op. 120 (eseguibili sia per clarinetto che per violoncello, nelle quali si ritrova tutto il mondo di Brahms, la misura, la compostezza, le armonie tipiche timbriche e anche il senso della tristezza e del sogno che sono caratteristiche del compositore amburghese) che incastonano, insieme al quintetto op.115, le opere pianistiche più sublimi, le opp. 116, 117, 118 e 119. A complemento sono stati eseguiti i Phantasiestücke di Schumann, composizione gradevole e spesso eseguita ma un po’ d’occasione e non fra le più significative del compositore di Zwickau. Probabilmente l’eccellenza esecutiva del gruppo va al clarinetto di Andrea Massimo Grassi che in alcuni passaggi ha saputo trovare lo spirito giusto, mentre il violoncello di Flaksman ha avuto spesso problemi di intonazione. Una valutazione acribica avrebbe potuto poi sottolineare imperfezioni pianistiche, tempi troppo lenti in tutti i brani, anche quelli più impetuosi, qualche problema di sincronismo fra violoncello e piano nell’ultimo brano di Schumann etc. ma sarebbe ingeneroso nell’ambito della tipologia di concerto di cui all’introduzione di questa recensione. Un bis beethoveniano, l’andante dal trio op.11. Un buon successo, non travolgente come si sarebbe potuto ipotizzare, visto l’ambito cittadino della performance.
PS quando si finirà di utilizzare frasi ridicole e senza senso come “la tonalità oscura di sol diesis minore” oppure ” la tonalità luminosa di do maggiore” dal momento che dal temperamento di Werkmeister (obbligatorio con il piano) TUTTE le tonalità maggiori e tutte le minori sono fra loro IDENTICHEEEEEEEE ovvero caratterizzate dagli stessi intervalli di frequenza fra i vari gradi della scala?????
Il blog come cartina di tornasole – 7 Aprile 2014
Tenere un blog di recensioni musicali è un’interessante esperienza. Ovviamente una recensione positiva riceve un certo numero di accessi ma molto maggiore è il numero degli accessi per una recensione negativa essendo l’interesse maggiore quello verso i perdenti (homo homini lupus), con quella curiosità verso di loro che purtroppo è una delle caratteristiche negative della nostra società. La cosa è peraltro la stessa che si riscontra nella cronaca giornalistica o televisiva: i fatti positivi (pochi purtroppo) sono spesso trascurati, mentre quelli negativi ricevono un’attenzione tanto maggiore quanto più sono tragici. Le reazioni a una recensione negativa sono diverse da parte degli artisti o di quelli che si spacciano per tali. Mentre un grande artista se la ride di una recensione negativa, conscio del proprio valore (Γνῶθι σεαυτόν !), e ben sapendo che a tutti capita una serata negativa (naturalmente in termini relativi) di cui spesso onestamente si scusa (ricordo in proposito Krystian Zimerman che scrisse una lettera di scuse e il da me poco amato Piotr Andrszewsky che come bis ripetè l’ultimo tempo della fantasia op. 17 di Schumann “..because I played it so badly“), sono gli esecutori minori che sono incapaci di accettare un verdetto contrario considerandolo un delitto di lesa maestà, rispondendo in modo astioso e risentito a un commento negativo, vedendo esposta la propria pochezza e sentendo minacciata la propria posizione che si fonda sull’ignoranza della grande maggioranza degli spettatori che – si sa, purtroppo – applaude la musica e non gli esecutori (salvo il caso dei grandi nomi, accettati come bravi per definizione indipendentemente da quanto propinato, alla stessa stregua di quanto accade per quei visitatori dei musei che si estasiano davanti a un quadro dopo avere letto il nome del pittore). E purtroppo gli spacciatori di musica falsa non sono una piccola minoranza contando appunto su un pubblico acquiescente e spesso poco esperto se non ignorante: insomma è ciò che in politica mister B. ha utilizzato per devastare l’Italia degli ultimi venti anni. Per molti aspetti la reazione a una recensione negativa dettagliatamente motivata (si legga in materia quella bibbia ristampata regolarmente che è il Lexicon of musical invectives dove le recensioni sono spesso al curaro) è la cartina di tornasole della grandezza di un interprete: essa è inversamente proporzionale al suo valore, che quando basso è spesso accompagnato da puerili giustificazioni (il pianoforte non in perfette condizioni, l’acustica scadente, il pubblico inquieto etc.) fino a giungere talvolta a minacce di vario genere quasi che un giudizio professionale severo corrispondesse al vilipendio della persona (absit iniuria verbis!) e cercando inutilmente di ottenere con la (supposta) intimidazione quello che non hanno ottenuto musicalmente (Es sind nur wenige, die den Sinn haben und zugleich zur Tat fähig sind. Der Sinn erweitert, aber lähmt; die Tat belebt, aber beschränkt – J.W.Goethe). Chi minaccia una querela non è solo uno scadente esecutore ma anche un ignorante della legge dal momento che la giurisprudenza ha più volte unanimemente sancito che il diritto alla critica, anche quando feroce, è inalienabile. Ho anche ricevuto risposte in dissenso dagli esecutori interessati, ferme ma civili (non come commenti al blog – che dovrebbero essere di terzi – ma come e-mail privati evitando di esporsi al ridicolo: anche in questo si manifesta l’intelligenza) che mi hanno permesso di condurre una pacata discussione in cui ciascuno è rimasto della propria opinione (inevitabilmente) ma evidenziando ciascuno lati rimasti oscuri alla controparte o sensibilità interpretative scaturite da approcci diversi. Il mio mondo, quello universitario, è simile ma tutto avviene con maggiore compostezza e maggiore eleganza: pare incredibile ma scopro che i baroni in fondo non sono così male come li si dipinge!
Evgenij Oneghin – 1 Aprile 2014
Evgenij Oneghin è un capolavoro assoluto: arie come quella della lettera di Tatjana nel primo atto sono un vero gioiello dell’arte compositiva ed è un vero peccato che in tanti teatri d’opera italiani (all’estero viene regolarmente rappresentato) venga allestito ogni morte di papa. E non solo l’opera è di straordinaria bellezza: anche il testo è letterariamente di altissima qualità esprimendo l’incompiutezza e l’incapacità di amare di un damerino tutto estetica e fatuità a fronte della profondità dei sentimenti della protagonista femminile e del suo senso del dovere e dello scorrere inarrestabile del tempo, che rende senza senso il rimpianto del passato del protagonista sottolineato dalla impostazione in flashback della regia, che vede tutto lo svolgimento dell’opera come un ricordo di un Oneghin ormai vecchio. Riascoltare l’orchestrazione di Ciaikovskij è un piacere musicale assoluto: si pensi all’uso del corno e dell’oboe per Tatjana e del clarinetto per la grande aria di Lenski del secondo atto. Tutto lo spettacolo è godibilissimo sia per la regia e la sceneggiatura senza sbavature, sia per gli interpreti, tutti di alto livello senza punte di eccellenza e senza carenze, sia per la direzione che ha saputo guidare l’orchestra nel rispetto assoluto del dettato del compositore. Un grande successo, meritatissimo che ha incontrato in modo assoluto le aspettative del pubblico delle grandi occasioni.
Yundi Li – Imola 31 Marzo 2014
Se si eccettua l’ultima edizione con la controversa – e per molti aspetti inspiegabile – vincita di Yulianna Avdeeva, il concorso Chopin ha sempre prodotto vincitori di altissimo livello: è certamente il caso del pianista cinese Yundi Li, un pianista oggi trentaduenne che ha vinto il concorso a soli 18 anni nel 2000 (dopo 15 anni di non assegnazione) con una ormai grande carriera alle spalle, ingiustificatamente e colpevolmente trascurato dalle organizzazioni concertistiche bolognesi. A questa mancanza ha posto rimedio il Circolo della Musica di Imola offrendo al pubblico un concerto di altissimo livello. Il pianismo di Yundi Li, pur basato su una solidissima tecnica, non concede nulla al virtuosismo fine a sé stesso (come spesso accade invece nel caso del suo collega cinese, la star multimediale Lang Lang) e fa della misura e del rispetto stilistico delle composizioni eseguite la cifra distintiva delle proprie interpretazioni. Se ne è avuta prova sia nella scelta del programma (che ha visto due brevi composizioni di Chopin – due notturni – la fantasia op. 17 di Schumann e due celebri sonate di Beethoven, il “Chiaro di luna” e la “Appassionata”) sia nell’esecuzione sempre attenta al dettato compositivo nell’ambito del quale l’espressione ha giocato – finalmente dopo tanti giovani muscolari – il ruolo fondamentale. Mi sento di dire che da tempo non assistevo a una esecuzione così perfetta delle sonate beethoveniane che in molti aspetti mi ha ricordato quella – spesso insuperata – di Brendel. Si percepisce chiaramente come queste due sonate siano maturate nel pianismo di Yundi Li portando l’esecuzione a un livello di eccellenza paradigmatico. Forse un po’ meno matura è stata l’esecuzione della fantasia Schumanniana, che pur basata su una impostazione ineccepibile è stata purtroppo viziata da alcune imperfezioni tecniche e – inspiegabilmente – dall’assenza dell’accelerazione finale del secondo tempo, 30 battute di bravura con salti di estrema difficoltà dello stesso livello di quelli del Mephisto Valzer di Liszt. Ma – ne sono certo – anche questa composizione maturerà (è possibile che questa sia stata la prima volta dell’esecuzione in pubblico del brano che come sempre richiede aggiustamenti e messe a punto). Insomma un grande pianista che vorremmo riascoltare presto. Un solo bis di autore cinese (sconosciuto al pubblico occidentale) come quasi sempre accade nei concerti di Yundi Li.
Stadler -Valbonesi – 30 Marzo 2014
Un concerto (breve, molto breve, 9 brani in totale più un bis) di Lieder di Mahler e Strauss i due post-wagneriani più celebri. Valentina Stadler ha una bella presenza, una bella voce calda e piena da mezzosoprano con una intonazione sempre precisa, in grado di gestire senza problemi anche il registro acuto (a sua lode va ricordato che – a differenza di tanti altri esecutori – esegue i Lieder a memoria). La voce è da mezzosoprano drammatico che esprime il meglio nei Lieder più consoni alla sua vocalità (ad esempio nel bis “Die junge Nonne” di Schubert) mentre si trova invece meno a suo agio nei brani più intimistici (ad esempio in “Morgen” di Richard Strauss – nella sequenza dei Lieder del concerto avrei infatti inserito come ultimo “Heimliche Aufforderung” o “Cäcilie” di Strauss). Una voce comunque che promette molto bene soprattutto in un repertorio operistico non belcantistico, con ampi margini di miglioramento che possono certamente essere raggiunti. Alla valutazione complessiva della prestazione sarebbe comunque giovata anche una minore staticità della persona che è apparsa un po’ rigida. E’ certo che trovare la giusta misura nella gestualità in un concerto di Lieder è impresa non facile ma pur nello spazio angusto riservato all’interprete è possibile individuare quel minimo di dinamica che deve accompagnare e sottolineare il significato del testo. L’accompagnamento del pianista Viller Valbonesi, corretto nell’esecuzione, ha ecceduto spesso in dinamica, sovrastando talvolta la voce: gli esecutori di concerti liederistici non dovrebbero dimenticare che la sala del Goethe-Zentrum è molto ridotta, con un’acustica non eccezionale e che quindi il coperchio del pianoforte dovrebbe essere solo socchiuso. Ad ogni buon conto un concerto interessante nel quale non sono mancati momenti di eccellenza.
(PS E’ del tutto ragionevole che per i testi ci si appoggi al sito http://www.recmusic.org/lieder/ ma non ci si può limitare a un’operazione di “taglia e incolla” altrimenti si copiano anche le parentesi quadre e i numeri delle note a piè di pagina che ovviamente non rimandano a nulla!)
(PS E’ del tutto ragionevole che per i testi ci si appoggi al sito http://www.recmusic.org/lieder/ ma non ci si può limitare a un’operazione di “taglia e incolla” altrimenti si copiano anche le parentesi quadre e i numeri delle note a piè di pagina che ovviamente non rimandano a nulla!)
Vladimir Jurowsky – 22 Marzo 2014
Nel concerto sono state eseguite musiche di Musorgskij (i Lieder de La camera dei bambini) e Mahler (una scelta dalla raccolta “Des Knaben Wunderhorn” e la quarta sinfonia). I Lieder di Musorgskij sono stati interpretati dalla soprano Sofia Fomina mentre quelli di Mahler sono stati affidati al baritono Gerard Finley ad esclusione dell’ultimo “Das himmlische Leben” affidato al soprano in quanto ripetuto in versione ampliata anche nell’ultimo tempo della quarta sinfonia. L’interpretazione del soprano non è stata travolgente: dotata di una voce piuttosto piccola seppure intonata non ha saputo trovare nei brani interpretati quella cifra esecutiva che di un Lied (che, va ricordato, si basa su un testo poetico, anche nel caso di Musorgskij che si ricollega a poesiole infantili) fa un brano compiuto che accoppia perfettamente musica e poesia (secondo alcuni – ad esempio Quirino Principe – il Lied è la forma musicale somma che vede sullo stesso piano poesia e musica). L’interpretazione della Fomina è risultata piuttosto monotona sia nei Lieder (inutilmente lagnosa nei Lieder di Musorgskij nel tentativo non riuscito di imitare la vocina di un bambino) che nel quarto tempo della sinfonia. Diverso il discorso per il baritono Finley che invece dello spirito popolare e spesso umoristico dei Lieder del “Des Knaben Wunderhorn (fra questi sopra tutti “Des Antonius von Padua Fischpredigt” e “Lob des hohen Verstands”)ha saputo cogliere e restituire i tratti salienti in questo aiutato certamente sia dalla musica che dai testi (questi testi popolari in più riprese musicati da Mahler erano molto apprezzati anche da Goethe che riteneva che una copia del libro dovesse essere presente nelle case di tutti i tedeschi). Forse sarebbe stato più significativo se i due Lieder del Wunderhornnei quali si ha un colloquio fra un uomo e una donna (“Der Schildwache Nachtlied” e “Wo die schönen Trompeten blasen”) fossero stati affidati ai due interpreti e non al solo baritono. La direzione di Jurowsky è stata impeccabile rendendo tutto lo scintillio dei primo tempo e l’aspetto intimistico dei tempi lenti della quarta sinfonia in modo impeccabile aiutato in questo dalla grande qualità della orchestra Mahler. Un grande successo.
Leonardo Colafelice – 20 Marzo 2014
A 19 anni con un curriculum di concerti e premi di tutto rispetto, le aspettative per il primo (almeno per quanto di mia conoscenza) concerto a Bologna di Leonardo Colafelice erano certamente significative. Di questo giovane pianista si possono dare due giudizi distinti: uno per la tecnica ed uno per la musicalità. Per il primo aspetto è certamente vero che le doti “atletiche” di Colafelice sono eccezionali e testimoniate – ad esempio – dal tempo staccato per il difficilissimo primo brano di Petrushka di Stravinskij e dalla disinvoltura con cui affronta le variazioni su un tema di Corelli di Rachmaninov, un compositore-pianista di grandi doti che ha riversato nei propri brani tutto il virtuosismo di cui era capace. Un discorso diverso e meno entusiasta per la musicalità. In Colafelice l’aspetto virtuosistico e l’esuberanza tecnica deprimono – e in modo significativo – l’aspetto espressivo e stilistico dei brani eseguiti, talché pare di assistere costantemente a una prestazione ginnica più che a un concerto classico. Certamente vi sono brani che giustificano questo approccio ma è proprio dell’artista sapere profondere – anche in questi casi – quella misura e quella sensibilità che sono la cifra dell’artista stesso. L’esempio più significativo in termini negativi si è avuto nell’esecuzione dell’unico bis – uno studio di Chopin dell’op. 10. E’ mancato totalmente lo spirito del compositore, le sfumature insite nel brano, in altre parole la musicalità. Di Colafelice si può affermare che ha un motore da Ferrari in una carrozzeria ancora da utilitaria. E’ giovane, già altre volte abbiamo assistito alla maturazione di giovani virtuosi ma questo richiede applicazione e forse qualche buon consiglio. Facciamo voti di ascoltarlo in futuro con maggiore piacere.
Bashmet e i solisti di Mosca – 17 Marzo 2014
Da molti anni ormai i concerti di Bashmet e della sua formazione da camera seguono una impostazione costante: tre (qualche volta quattro) brani per orchestra all’interno dei quali uno prevede la viola come solista, normalmente quello meno significativo… E’ ormai un ricordo che si è perso negli anni quello di un concerto solistico di Bashmet e non regge la spiegazione che la letteratura per viola è ridotta: vi sono bellissimi brani (si pensi solo alle due bellissime sonate di Brahms) e non mancano di certo trascrizioni più che sufficienti a impostare più di un concerto. E’ vero, il tempo passa per tutti e invecchiare da grande saggio, come ha fatto Brendel, non è comune (nel caso di Bashmet, poi, vi è anche un rifiuto estetico). Bashmet non è il solo ad avere trasformato negli anni i propri concerti: possiamo citare la Mullova, Spivakov etc. tutti folgorati dalle orchestre da camera sulla via di Damasco. La spiegazione, anche troppo semplice da fornire, può essere desunta da chiunque (nel caso della Mullova la cosa è ancora più colpevole perché nel caso delle sue sempre più rare apparizioni solistiche esprime ancora qualità eccezionali). Quanto al concerto in questione si può certamente affermare che la formazione cameristica è di buona (non eccelsa) qualità e che rispolverare due brani di “Benji” (così veniva chiamato dagli amici) Britten composti da teen-ager non appare di certo uno scoop musicale. Lo stesso si può dire per una composizione secondaria di Paganini che il tempo ha giustamente dimenticato mentre il “Souvenir de Florence” è ormai troppo praticato senza la necessità di doverlo riascoltare (e viene riproposto da Bashmet a intervalli regolari…). Un concerto, insomma, al di sotto delle aspettative: ciliegina sulla torta una introduzione di pochi minuti che il relatore non è neppure riuscito a mandare a memoria!
