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Oratorio "Die Schöpfung" di Haydn – 16 Marzo 2014


L’oratorio “Die Schöpfung” (la creazione), composto fra il 1796 e il 1798 e rappresentato in pubblico nel 1798, è uno dei brani di più ampio respiro del compositore austriaco, certamente ispirato dai grandi oratori di Händel che Haydn ebbe l’occasione di ascoltare nei suoi due soggiorni inglesi. E’ una composizione grandiosa, di grande qualità musicale, che costituisce il coronamento della maturità Haydniana, che si avvale di una grande orchestra, di coro e di tre “soli” (baritono, tenore e soprano) cui si aggiunge un quarto soprano nel numero finale dell’opera.  L’esecuzione da parte dell’Orchestre des Champs-Élisées sotto la direzione del collaudato Philippe Herrewege e con il coro del Collegium Vocale Gent è stata di grande qualità, per cui le si possono perdonare alcune sbavature dei corni (strumento notoriamente infido), cui il pubblico bolognese è purtroppo abituato. La soprano Christina Landshamer è dotata di una bella voce capace di coprire un’ampia varietà di registri e ha fornito un’ottima interpretazione, dopo le prime battute non del tutto felici. Senza alcuna sbavatura il baritono Rudolf Rosen del quale oltre alla vocalità abbiamo apprezzato la capacità di articolare correttamente le frasi tedesche, in particolare nei recitativi, perdonandogli la tendenza a trasformare le “e” in “i”. Una prestazione un po’ meno felice quella del tenore Maximilian Schmitt che non è sembrato trovarsi a proprio agio in un repertorio barocco: la voce non è apparsa sempre cristallina anche se non gli si possono imputare problemi di intonazione. Un meritato successo di un non numeroso pubblico, numericamente certamente inferiore alle “prime” delle passate edizioni del Bologna Festival: un fenomeno che dovrà essere accuratamente analizzato e che può trovare una sua giustificazione nei prezzi costantemente lievitati negli ultimi anni. Un’ultima annotazione: chi scrive è assolutamente favorevole alla partecipazione delle scolaresche che della musica “forte” (secondo la dizione di Quirino Principe) sono sostanzialmente digiune (una colpa che nessun ministro dell’istruzione – probabilmente per sua stessa ignoranza – pare prendere nella dovuta considerazione, relegandoci al livello di stato del quarto mondo) ma ciò dovrebbe essere organizzato accuratamente evitando di raggruppare i ragazzini che inevitabilmente, nonostante la cura loro dedicata da una delle maschere, poco si interessano e tendono a disturbare il prossimo.  Mi pare che soprattutto in un teatro così poco affollato, una corretta distribuzione uniforme dei “teen agers” non dovrebbe certo costituire un problema a vantaggio loro e degli altri spettatori.
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Akyoldaş-Tokur – 9 Marzo 2014


Quello che non ti aspetti: un concerto presso il Goethe Zentrum di Bologna di grande qualità con due giovani protagonisti turchi che studiano in Italia. La soprano Seren Akyoldaş (che ha sorprendentemente un passato significativo di cantante Jazz) ha dimostrato qualità canore eccezionali in un repertorio, quello Liederistico, che ha così poco seguito in Italia. Ha una voce calda, pressoché sempre intonata (anche nel difficilissimo Lied “Tristesse” di Liszt ove per vare battute canta senza l’accompagnamento del piano una melodia del tutto non facile), che spazia dal pianissimo flautato alla piena drammaticità esprimendo in tale contesto una pienezza e una potenza anche nel registro acuto che la rendono potenzialmente una promettente voce wagneriana.  Alla voce si accompagna una piena consapevolezza dei testi dei Lieder eseguiti che le permettono una gestualità contenuta ma espressiva, non comune nei concerti di Lieder ove molto spesso la staticità dell’interprete riduce la qualità interpretativa. Va anche sottolineato che il programma presentato (22 Lieder di Brahms, Liszt, Wolf e Strauss seguiti da un bis, la celeberrima “Das verlassene Mädchen” di Wolf) era di grande impegno e certamente anche faticoso dal punto di vista fisico che in nessun modo ha inciso negativamente sugli ultimi Lieder eseguiti. Il concerto ha avuto un successo pieno anche per la qualità del pianista Doruk Görkem Tokur che seppure non aiutato dalla qualità insufficiente dello strumento ha saputo però eseguire la sua parte in modo del tutto consono al repertorio della serata. E anche se ho ripetutamente stigmatizzato i concerti di Lieder nei quali il pianista esegue alcuni brani solistici, va detto che le sue esecuzioni sono state di grande qualità a partire dallo studio trascendentale di Liszt nel quale ha sfoggiato una tecnica di grande spessore che ha destato l’ammirazione mia e di tutti gli spettatori. Insomma un bel concerto e l’auspicio di risentire presto a Bologna i due esecutori.

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Banditelli-Mazzoli – 25 Febbraio 2014


Il tempo è un nemico impietoso e ciò vale – in campo musicale – soprattutto per le cantanti ed è tanto più doloroso quando i suoi segni si abbattono implacabilmente su un’artista il cui valore, nel tempo che fu, era indiscutibile: il concerto di Gloria Banditelli dedicato ai Lieder di Schubert ha comprovato ancora una volta la veridicità della precedente affermazione.  L’intonazione è incerta, gli acuti quasi sempre calanti nonostante la trasposizione verso il basso della partitura, il registro intermedio afono e privo dei necessari armonici e le note basse, proprio a causa della trasposizione, quasi inaudibili. E’ triste vedere come un glorioso mezzosoprano non voglia rendersi conto del tempo che passa. A ciò si aggiunga che proprio per l’assenza di fiato del mezzosoprano i Lieder sono stati quasi singolarmente intervallati con l’esecuzione dei momenti musicali Schubertiani per piano solo. Ho già avuto modo di stigmatizzare questi concerti zibaldone ai quali manca qualsiasi unitarietà ma in questo caso è venuto a mancare qualsiasi filone interpretativo della performance che è risultata un insieme slegato e quasi casuale di opere del compositore viennese. A ciò si aggiunga che certamente l’uso del fortepiano (ahimé queste manie di esecuzione filologica…) ha contribuito al risultato scadente del concerto privando l’esecuzione, anche a livello dello strumento, degli armonici necessari e non prodotti dalla Banditelli. Inoltre l’interpretazione piuttosto piatta dei momenti musicali (nei quali non sono mancate note false pur nella semplicità del dettato musicale) ha completato un quadro complessivo francamente insoddisfacente (eufemismo). Due bis (fra cui il famoso Ständchen seguito dal  Gute Nacht della Winterreise) che non hanno contribuito a risollevare la serata.
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Federico Colli – 24 Febbraio 2014


Federico Colli è un interessante giovane pianista, vincitore del concorso pianistico di Leeds nel 2012, dotato di eccellente tecnica e sensibilità esecutiva che ha presentato un programma costituito da tre sonate (Mozart, Beethoven e Schumann) che coprono l’arco temporale che va dalla metà del 700 alla metà dell’800: una performance delineata da caratteri distintivi diversi fra il primo e il secondo tempo. La sonata di Mozart è stata infatti resa con encomiabile, perfetto impianto stilistico ed esecutivo e parallelamente di ottima qualità stilistica e interpretativa è stata l’esecuzione dell’op. 57 di Beethoven (la celeberrima “appassionata”) per la quale l’unico appunto che si può fare è che rinunciando a innecessari eccessi virtuosistici meglio si renderebbe lo spirito dell’opera e si eviterebbero imperfezioni esecutive, alcune delle quali oggettivamente eclatanti.  In ogni caso un’interpretazione della sonata che conferma l’impressione positiva ricevuta due anni avanti nel corso di un’esecuzione privata.
Schumann è un compositore “romantico” dal punto di vista temporale e da quello tonale ma che nelle sonata op. 11 e in quella op. 22 (e financo nell’ op. 14 che però fa storia a sé) è ancora fortemente influenzato dai vincoli strutturali liberamente interpretati della forma sonata. Ne fanno fede i 4 tempi in cui si suddividono e l’impianto organizzativo soprattutto del primo e quarto tempo che sono la prova di quel classicismo romantico cui si opporrà Liszt e successivamente Wagner e che al contrario troverà la sua continuazione in Brahms. (In questa ottica è interessante notare come l’ultimo tempo della sonata op.11 sia riflesso nella struttura e nell’impianto tonale dell’ultimo brano – ovviamente in forma ridotta – degli studi sinfonici op. 13 a riprova dell’importanza data alla sua impostazione). Tutto questo per dire che l’interpretazione della sonata deve rispettarne i canoni compositivi e le indicazioni ritmiche e agogiche: rispetto che non si è concretizzato nell’esecuzione di Colli. Qui le libertà ritmiche hanno rasentato e spesso sconfinato nell’arbitrarietà: corone lunghe quanto l’intervallo fra due tempi, accelerazioni al limite del virtuosismo e rallentati esasperati –  talora esangui – che hanno finito per sfigurare l’intera composizione. L’espressività di un brano deve trovare la sua cifra realizzativa nell’ambito del rispetto dell’impostazione del compositore, del suo tempo e soprattutto delle indicazioni che in tanta parte degli scritti Schumanniani, così chiari ed esplicativi, possono essere riscontrati. A Colli, come a tanti altri pianisti, farebbe assai bene approfondire la conoscenza del compositore non solo attraverso le sue partiture ma anche attraverso la sua vita e le sue opere. Naturalmente a un giovane pianista agli inizi della carriera possono essere perdonati gli eccessi – spesso finalizzati a impressionare un pubblico di bocca buona – ma che debbono trovare rapidamente un temperamento in assenza del quale il percorso di crescita rischia di arenarsi collocando l’esecutore in quella “terra di mezzo” nel quale tante giovani promesse si sono impantanate. E’ certamente in questa ottica che deve essere collocata l’esecuzione di Colli nella quale l’eccellente esecuzione delle prime due sonate risente in positivo della impostazione rigorosa loro fornita dai docenti di Imola, molto probabilmente invece assente nell’esecuzione Schumanniana. I limiti del giovane pianista si sono sentiti anche nell’esecuzione dei due bis: un improvviso di Schumann e un corale di Bach. Nel primo si sono riscontrate le stesse debolezze della sonata Schumanniana mentre per quanto riguarda il secondo è semplicemente meglio dimenticarsene dal momento che, eseguito a una velocità totalmente fuori stile, si è trasformato in uno studietto da “grande velocità” di Czerny.  Naturalmente successo pieno (come non applaudire un giovane che anche nell’abbigliamento ricordava Beethoven?) nell’espressione del quale si distinguono ridicolmente i battimani provinciali a mani alzate (mai visto qualcosa di simile a Milano, a Berlino, a Londra): un esercizio che trova la sua spiegazione solo in un’esibizione ginnica che nulla aggiunge – ma semmai toglie – all’espressione di consenso rapito di una parte del pubblico. L’introduzione di Maria Chiara Mazzi come sempre precisa, documentata e concisa (esempio purtroppo raramente seguito).
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Tosca – 20 Febbraio 2014

Ambientata nell’ambito dei complessi avvenimenti del 1800 (il riferimento alla battaglia di Marengo è preciso nell’opera) e nell’ambiente repressivo romano – esplicitamente espresso da Scarpia  che considera i Volterriani come i nemici principali dello stato – immediatamente successivo alla caduta della prima repubblica, Tosca è una delle quattro opere maggiormente rappresentate del compositore di lucchese.  Una storia a fosche tinte nella quale torreggia nella sua perfidia il barone Scarpia, dissoluto plenipotenziario e legibus solutus, teso unicamente a soddisfare il proprio piacere. La messa in scena bolognese ha tutti i connotati di una impostazione assolutamente tradizionale nei ricchi costumi e nelle scene (con tanto di tavola finemente apparecchiata del secondo atto) nella quale campeggiano, nei tre atti, tre sculture consone allo svolgimento del dramma. Appare soltanto stonato il gigantesco quadro (o l’affresco) black and white dipinto da Cavaradossi nel primo atto, sul quale il cavaliere cammina impunemente, incurante dei danni arrecati all’opera d’arte.  Globalmente l’opera è di buona qualità diretta dal giovane Jader Bignamini e con un cast adeguato seppure non eccezionale. Eccellente l’interpretazione di Scarpia da parte del baritorno Raymond Aceto e buona la performance di Tosca (Ainhoa Arteta) che trova nei mezzi toni la migliore espressione vocale (ad esempio nella famosa aria vissi d’arte) mentre più carente è nel registro acuto (soprattutto drammatico) nel quale la voce si esprime in modo più stridulo. Inadeguato il tenore Stefano Secco con grossi problemi di intonazione (si veda in proposito l’attacco di recondite armonie). Una menzione onorevole al baritono Alessandro Busi che ha reso in modo pressoché perfetto la piccola ma preziosa parte del sagrestano. Un buon successo di pubblico (nel quale non mancava però una “claque” fin troppo manifesta) che ha di molto sopravanzato i pochi buuh provenienti dal loggione.

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Maria Perrotta – 11 Febbraio 2014

Le interpretazioni di Chopin nel corso dei circa 150 anni che ci separano dalla sua morte sono state le più disparate: si passa dal post romantico Paderewsky, agli eccessi non sempre confortati da una tecnica adeguata di Cortot (interessantissimi  i suoi commenti alle opere di Chopin e Schumann nelle Éditions de travail  dell’editore Salabert improntate a un rigore formale e stilistico costantemente tradito nelle sue esecuzioni), alla visione apollinea di Michelangeli, alla impostazione razionalistica e illuminista di Pollini fino a ritornare a una visione più lirica negli esecutori attuali della nuova generazione. Insomma Chopin come una ispirazione astratta da modellare nella realtà volta a volta secondo i gusti degli interpreti e della moda corrente. Eppure il compositore polacco ha fornito indicazioni interpretative e ritmiche chiare nelle sue opere che dovrebbero quantomeno orientare gli esecutori i quali non possono anche non tenere conto della sua personalità come riportata dalle cronache del tempo e così ben descritte nella biografia del polacco Kazimierz Wierzyński tradotta in italiano alla fine degli anni ’50 dello scorso secolo: una personalità forte, persino sanguigna, capace di grandi passioni, certamente non prona a esangui illanguidimenti ovvero del tutto diversa da quella che lo vede come una versione corporea del mal sottile che lo uccise nel fiore degli anni. Il concerto di Maria Perrotta (durato complessivamente meno di un’ora)  è stato interamente dedicato al compositore di Zelazowa Wola e ha segnato una svolta rispetto alle interpretazioni stilisticamente rigorose delle ultime tre sonate di Beethoven e prima ancora delle Goldberg Variationen di Bach. La Perrotta è dotata di un tocco di grande spessore interpretativo che però si inquadra in una visione ritmica dei brani eseguiti apparsa spesso eccessivamente rilassata, specialmente nei primi due notturni eseguiti nei quali l’impostazione illanguidita ha un po’ sfilacciato l’impianto compositivo del brano. L’esecuzione dell’ Andante spianato e grande polacca brillante, un brano un po’ di maniera, non certo ai vertici delle composizioni chopiniane, è stata certamente di buona qualità ma l’attesa del pubblico era tutta per la 4a ballata, uno vertici assoluti del compositore, nella quale si riassumono sezioni diverse che vanno dall’introduzione in un luminoso do maggiore, a un passaggio misterioso in fa minore passando poi attraverso episodi che costituiscono un caleidoscopio dell’universo chopiniano fino all’impetuoso, tecnicamente molto impegnativo, finale.  Qui l’esecuzione non è stata all’altezza delle aspettative: i tempi troppo rilassati nei cantabili hanno finito per snaturare l’impostazione in ogni modo drammatica della ballata e l’esecuzione del finale ha risentito di imperfezioni tecniche e di un tempo non corrispondente alle esigenze del brano. Sia chiaro: ogni esecutore quando affronta un nuovo programma (in pubblico, non nella sicurezza della propria residenza) ha la necessità di calibrare la propria impostazione e appare ragionevole aspettarsi un significativo miglioramento interpretativo nel corso del tempo caratterizzato da un maggiore rigore stilistico. Forse un po’ più problematico è l’aspetto tecnico soprattutto considerando l’agone pianistico in cui al giorno d’oggi un esecutore si muove, caratterizzato da giovani leoni che di una ferrea tecnica trascendentale fanno le fondamenta sulle quali costruire la propria cifra interpretativa. Perché poi la Perrotta in un programma interamente dedicato a Chopin abbia scelto come unico bis un brano di Scrjabin è un po’ un mistero (e un errore) anche se credo di potere individuarne la causa, ma è una considerazione puramente psicologica che non rileva in un brano di critica musicale.
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Viktoria Mullova & friends – 10 Febbraio 2014

La trasformazione in atto da alcuni anni è giunta a compimento: il concerto di Viktoria Mullova (ex moglie del compianto Abbado) si è trasformato in un vero happening “para-jazzistico” nella forma e nel programma: non “à la mode delle Labecques”  ma nel senso più pieno della parola. La nostra grande violinista non si è fatta mancare nulla: un batterista (con tanto di scopino) con pantaloni multicolor, un pianista di colore di stazza enorme apparentemente uscito dal dixieland di New Orleans anche nel vestiario e un vibrafonista/xilofonista che con la sua “mise” sobria (pantaloni e camicia bianca  sbottonata)  pareva quasi un damerino rispetto ai compagni di cordata, ai quali è stato aggiunto un violoncello, probabile riminiscenza del mancante contrabbasso tipico di queste formazioni. E poi lei, con ciabatte e vestito a metà strada fra il glamour e  il “café chantant”quale stella della serata, un vestito insomma casual ma pretenzioso. Anche nello svolgimento il concerrto si è attenuto allo standard del jazz con la presentazione singola a voce alta dei vari strumentisti a metà della performance, peraltro riportati individualmente nel programma a stampa della serata. Nell’ascoltare i brani eseguiti, di autori di cui non resterà traccia nella storia della musica (fra i quali un non meglio identificato “Weather report” che ne ha firmati due), ha trovato un posto significativo il minimalismo, con l’ossessiva ripetizione di moduli ritmici e il sincopato senza dimenticare alcuni accenni al ragtime. Ascoltando il “concerto” (svolto senza intervallo per un motivo che può essere facilmente intuito) non potevo fare a meno di ricordare un articolo riportato sul celebre “Lexicon of musical invective” di Nicolas Stonimsky a proposito della prima esecuzione agli inizi del ‘900 del  “Sacre du printemps” di Stravinskji  parafrasato in “Massacre du printemps”, chiedendomi se la valutazione assolutamente negativa qui da me espressa potesse essere considerata identicamente insulsa dai posteri (cui “l’ardua sentenza“). Anche il bis finale non si è sottratto al carattere nazional-popolare della serata con l’esecuzione di una famosa “csarda” nel corso della quale è stata inserita una cadenza virtuosistica che ha permesso a Viktoria di ricordare al pubblico  quali siano le sue grandi doti tecniche e musicali, così vilmente depresse per solleticare i gusti più corrivi di un pubblico, la cui maggioranza, naturalmente, è andata a nozze nell’occasione.  Inseriti nel programma, per strizzare l’occhio ai più conservatori (nell’ambito dei quali, per questa volta, mi annovero senza alcuna  reticenza) i duetti di Bartok per violino e violoncello (naturalmente inframmezzati da improvvisazioni non richieste della banda del jazz) e un brano di Kodaly sempre per violoncello e violino, l’unico rimasto incontaminato, che è però apparso come una cattedrale nel deserto.  Una sola vera nota positiva della serata: è stata risparmiata al pubblico l’introduzione musicologica iniziale. Chi mai avrebbe potuto assumersene l’onere?
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Bostridge-Johnson – 3 Febbraio 2014


Di una cosa si può essere certi: che Ian Bostridge non può che essere inglese! Magrissimo, alto allampanato, con una “mise” nera con pantaloni e giacca stretti, camicia bianca aperta, scarpe a punta e taglio di capelli un po’ “mods” pare uscito da un figurino della Londra alternativa.  Anche la sua postura sulla scena contribuisce al personaggio: canta talvolta appoggiandosi al piano (afferrandone persino le maniglie interne), talvolta con le mani in tasca (!) talvolta a braccia conserte etc. con uno sguardo che a tratti pare addirittura assente. Però… il suo canto è di sopraffina qualità e certamente frutto di una grande esperienza Liederistica, genere che costituisce la parte più consistente della sua attività artistica. Nessun dubbio che nel repertorio operistico si sia principalmente dedicato alle opere di Britten con poche incursioni nel repertorio più classico (v. Don Ottavio nel Don Giovanni di Mozart che proprio per la sua natura di amante inconsapevolmente tradito che non si rende conto della realtà e profondità del personaggio di Donna Anna perfettamente si adatta alla complessione un po’ stralunata di Bostridge). Il concerto comprendeva alcuni Lieder di Schumann su testi di Heine (ad esclusione dei più noti Dichterliebe) e alcuni dei meno noti Lieder di Brahms. La vocalità di Bostridge pare più adatta alla musicalità Schumanniana, classicheggiante anche nei momenti più drammatici, che a quella più tormentata e armonicamente più complessa del mondo Brahmsiano nel quale la voce limpida di Bostridge non sempre rende appieno la tortuosità del mondo del compositore tedesco: sarebbe certamente interessante in questa ottica vedere il nostro alle prese con il repertorio post Wagneriano (Wolf, Strauss e Mahler). Sia chiaro: ci troviamo di fronte a uno dei massimi interpreti della Liederistica attuale, che vede nelle giovani generazioni cui Bostridge appartiene, una sorta di rifiuto della impostazione classicheggiante di Fisher-Dieskau o di Quastoff.  Una menzione particolare va poi a Graham Johnson da sempre sopraffino accompagnatore (una espressione riduttiva che non rende l’importanza del piano nel Lied) che in ogni brano ha trovato la giusta cifra interpretativa in grado di permettere al tenore di esprimere al meglio la propria musicalità. Un concerto tutto da godere, insomma, per un repertorio che colpevolmente e disgraziatamente è coltivato nel circondario Bolognese solo dal Circolo della Musica di Imola a riprova di un provincialismo locale che anzichè aprirsi alle istanze europee tende sempre più a rinchiudersi in un mondo culturale cristallizzato e quindi sterile.
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Paul Lewis – 20 Gennaio 2014

Un concerto caratterizzato da un programma poco convenzionale: corali bachiani seguiti senza interruzione da sonate di Beethoven, brani poco noti e intimistici dell’ultimo Liszt e i “quadri di una esposizione” di Mussorgski. Il tutto eseguito da un pianista quarantunenne della generazione di mezzo, Paul Lewis, di origine inglese, che sta giustamente ottenendo grande successo nell’agone internazionale con programmi molto differenziati (si veda sul suo sito – Paul Lewis site – la impressionante sequenza dei concerti che terrà in questo gennaio e nel 2014). Il pianismo di Lewis, colto, raffinato e distante dal virtuosismo funambolico di molti artisti della giovane generazione, dimostra un’intima percezione del dettato musicale dei brani eseguiti. Nell’ascoltare la prima parte del concerto (corali bachiani e sonate di Betthoven fra cui la celeberrima “Chiaro di luna”) il pensiero non può non correre ad Andras Schiff che di questi autori ha fatto una propria bandiera: il confronto è leggermente a sfavore di Lewis, pur riconoscendogli altissime qualità musicali. Vi è qualcosa nelle interpretazioni di Lewis, un senso di freddezza forse, che impedisce un giudizio totalmente positivo anche se chi scrive deve confessare che l’indicazione è puramente soggettiva e non suffragata da particolari aspetti interpretativi (se si escludono alcuni elementi tecnici quali, ad esempio, il mancato ribattuto alla fine degli arpeggi spezzati del terzo tempo dell’op. 27 n.2 di Beethoven e forse l’uso non sempre felice del pedale nei corali bachiani). Certamente di alta qualità è l’intepretazione dell’opera Mussorgskiana (eseguita in diretta continuità con l’ultimo brano Lisztiano, l’omaggio a Richard Wagner, eseguito con grande sensibilità) dove sono stati messi in perfetta luce tutti gli aspetti timbrici dell’opera, così importanti per caratterizzarne l’impianto “antimodernista”.  Scrivendo queste righe mi accorgo che potrebbe non risultare chiaro quale è il mio giudizio su Lewis ma mi trovo esattamente in quella condizione di “mixed feelings” nella quale una valutazione definitiva richiede un’analisi ulteriore, una prova di riconferma insomma.  Un artista anticonvenzionale anche nell’abbigliamento seppure non estraneo alla gestualità istrionica delle braccia, così tipica dell’ “ancien régime” pianistico, che ha regalato un bis minimalista e intimista (poche battute) ignoto colpevolmente all’estensore di questo post.
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Di Marco-Zicari – 19 gennaio 2014

Il pianoforte a 4 mani è spesso sottovalutato sia come repertorio che come complessità esecutiva. La letteratura offre bellissimi brani, molto spesso poco noti al grande pubblico: ne è un esempio la grande fuga op. 133 di Beethoven per la quale l’autore stesso ha predisposto una trascrizione (molto difficile e peranto di rara esecuzione) per il piano a 4 mani.  Si pensa erroneamente che l’esecuzione a due pianoforti sia assimilabile a quella del piano a 4 mani ma le problematiche sono del tutto differenti. Il problema esecutivo dell’esecuzione a 4 mani risiede sia nel fatto che uno dei due esecutori opera nel registro basso del piano (e quindi con un volume di suono superiore a quello dell’altro esecutore mentre la parte che esegue è spesso di accompagnamento) sia nel fatto  che il volume complessivo del suono è estremamente elevato e proveniente da una sola sorgente, rendendo l’esecuzione dei “piani” spesso problematico.  I due problemi suesposti hanno caratterizzato il concerto del duo in questione al Goethe Centrum. I brani eseguiti sono risultati sempre fra il mf e il ff  con una prevalenza talvolta disturbante del registro basso: i “piani” sono risultati quasi inesistenti. Va detto a parziale giustificazione che la qualità del piano e l’acustica della sala hanno contribuito all’effetto indesiderato.  Quanto alla specificità dell’esecuzione è risultata abbastanza evidente una differenza nel pianismo dei due interpreti a favore di Erika di Marco e certamente l’esecuzione di alcuni brani brillanti (e in particolare le danze ungheresi di Brahms) avrebbero richiesto un tempo decisamente più accelerato pur riconoscendone la difficoltà tecnica.  “Room for improvement”…
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Parsifal – 14 Gennaio 2014

Una cosa è certa: è la scenografia (mutuata dal teatro de la Monnaie di Bruxelles)  che recita la parte del leone e in particolare i riferimenti a Magritte del secondo atto (e come avrebbe potuto essere differentemente in una messa in scena belga ?). Mentre la scenografia del primo atto concepita da Castellucci è appositamente costruita per “épater les bourgeois”, nella quale la selva in cui Parsifal uccide il cigno, è costituita da piante “umane” (ma che ci fa il pitone – vero ! – sollevato davanti alla fotografia di Nietsche durante l’ouverture ? – “food for thought”) e il cigno è schematizzato dal suo scheletro (tutte simbologie di difficile decifrazione, ammesso che ne abbiano una), ma che in ogni caso produce un bell’effetto scenico, quantomeno inconsueto, la scenografia dell’ultimo atto con una esasperante marcia da quarto stato su tapis roulant di una non meglio identificata moltitudine (i cavalieri del Graal in versione “crisi economica”, tutti  di statura inferiore ai tre protagonisti ?) è sostanzialmente noiosa e ripetitiva e non trasmette nulla del mistero del Karfreitag. Della lancia  che guarisce Amfortas non c’è traccia a meno che essa non sia rappresentata dal serto di fiori intrecciato (della serie “mettete dei fiori nei vostri cannoni”).  Un discorso diverso vale per il secondo atto nel giardino di Klingsor.  Qui l’impatto surreale trasmette assai bene lo straniamento e la tentata seduzione del “puro folle”, i contorcimenti ginnici delle Blumenmädchen colgono interamente il subliminale messaggio sensuale (che si concretizza poi nell’amplesso mostrato senza infingimenti) e la figura di Klingsor, quale burattinaio delle Blumenmädchen,  ne coglie la natura malvagia e al contempo il desiderio di distruzione quale redenzione negativa della sua esistenza.  Il tutto in un’atmosfera lattea senza tempo e senza luogo. La direzione di Roberto Abbado è di buona qualità ma non esaltante (il tempo lentissimo  staccato nell’ouverture ricorda lo stile di Gatti, per il quale, a Bayreuth, le maschere hanno ottenuto una integrazione di stipendio, essendo la durata del suo Parsifal di una buona mezz’ora più lunga del normale!). Naturalmente non si può giudicare una direzione senza giudicare l’orchestra la quale ha mostrato ancora una volta i propri limiti, soprattutto nella sezione degli ottoni, così importanti per la musica wagneriana. I cantanti: sopra tutti gli altri il Gurnemanz di Gàbor Bretz,  la Kundry di Anna Larsson (difficile dimenticare per Kundry la battuta che circola regolarmente a Bayreuth: siccome nel terzo atto nell’unico momento in cui interviene canta “dienen, dienen” – servire –  il pubblico interpreta la cosa come “verdienen, verdienen” – guardagnare con poco sforzo…..) e il Klingsor di Lucio Gallo (pronuncia tedesca a parte), A Parsifal (Andrew Richards) manca quella intonazione a metà strada fra eroe terreno e predestinato celeste che è la cifra del personaggio e Amfortas (Detlef Roth) è piuttosto monotòno  (soprattutto nel terzo atto, in cui giuoca un ruolo così importante).  Titurel (Arutjun Kotchinian) nella norma. Un successo non pieno seppure gli applausi siano stati più degli inevitabili buuh, ma dopo l’intervallo del secondo atto la sala si è in parte svuotata. Causa anche dell’orario erroneo – non si comincia un’opera così lunga e impegnativa come il Parsifal alle 19: l’orario giusto sono le 18 se non le 17 come avviene in tutti i teatri non provinciali. Una menzione più che  onorevole al cane lupo che ha ascoltato immobile sulla scena una buona parte dell’opera, più attento di molti sonnacchiosi spettatori….
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Orchestra da camera Franz Liszt – Romanovsky – Boldoczki 13 Gennaio 2014

Un concerto di grande qualità con una formazione consolidata da anni e giustamente rinomata (senza direttore con il primo violino in funzione di Konzemeister) e  due interpreti (Romanovsky piano e Boldoczky tromba) all’altezza della situazione. Un programma basato sull’antiromanticismo (Stravinslij, Šostakovič, Britten) con una conclusione contrapposta in stile romantico (Liszt, rapsodia ungherese n. 2 trascritta per orchestra). Di Romanovsky abbiamo già avuto ripetutamente occasione di valutarne la tecnica d’acciao che nel difficilissimo concerto per piano, tromba e archi di Šostakovič ha avuto modo di esprimersi al meglio, richiedendo il brano un pianismo brillante con poche concessioni al lato interpretativo. Anche la tromba di Boldoczki ha offerto una prova di altissimo livello anche se la parte a lei dedicata ha un risalto di secondo piano nel concerto. Purtroppo Romanovsky non ha resistito alla tentazione di eseguire un bis per piano solo, il “Clair de lune” della Suite Bergamasque di Debussy. E’ questo un autore agli antipodi del pianismo di Romanovsky e il risultato negativo era prevedibile: assenza di timbro impressionista, interpretazione meccanica assenza di quell’aura fatata e sognante che permea il brano. Ci si chiede perchè un interprete di levatura come Romanovsky non abbia la sensibilità di evitare brani che sono al di fuori della sua cifra stilistica. Di grande pregio l’esecuzione di un secondo bis, il “Secondo Valzer” di Šostakovič eseguito da tromba, piano e orchestra: una fusione perfetta e godibilissima fra i tre protagonisti che ha giustamente avuto una approvazione incondizionata da parte del pubblico.
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Manoni-Rinaldi – 15 Dicembre 2013

Va riconosciuto all’Istituto di Cultura Germanica di Bologna (http://www.istitutodiculturagermanica.com/attivita_culturali.html) il merito di essere l’unica istituzione bolognese che propone concerti di Lieder (quasi totalmente gratuiti), un genere musicale che ha vastissima importanza all’estero ed è molto trascurato in Italia e in particolare a Bologna. Il concerto in questione (Schumann, Wolf, Brahms e Strauss) è l’ultimo del 2013 ma è già in cantiere l’attività 2014.  Del mezzosoprano Arianna Rinaldi è già stato proposto un concerto di Lieder nel 2012 (Brahms – Zigeuner Lieder): dotata di mezzi vocali eccezionali quanto a potenza della voce, capacità espressive e intonazione mentre nel succitato concerto ha trovato il suo humus, si trova un po’ a disagio in un repertorio meno drammatico in quanto ha difficoltà a contenere i suoi mezzi finendo con “spingere” anche laddove il testo e la musica dovrebbero privilegiare un aspetto più lirico. Un plauso senza incertezza va invece al soprano Leva Manoni che si è alternata ad Arianna Rinaldi nell’esecuzione dei Lieder, che ha saputo rendere con gli accenti giusti tutti i brani interpretati: una voce che vorremmo potere ascoltare più spesso anche in un repertorio operistico. Al pianoforte Lorenzo Orlandi che oltre ad accompagnare l’esecuzione dei Lieder  ha interpretato in modo incolore una “Consolation” di Liszt: ma perchè inserire un brano per piano solo,(fra l’altro certamente non dei più belli del compositore ungherese)  isolato  assolutamente fuori dal contesto del concerto? Solita inutile introduzione che nulla ha aggiunto al concerto.
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Assessore Ronchi – 13 Dicembre 2013


Non sono fra gli entusiasti della mostra Vermeer perché l’enorme cifra impegnata avrebbe potuto essere impiegata per agonizzanti istituzioni locali in debito di ossigeno, fra le quali svettano Comunale e Arena del Sole. Ma ritengo anche che  l’autonomia decisionale delle singole istituzioni – anche se necessariamente temperate da una visione non settoriale degli interventi – non possano essere contestate in modo provocatorio dall’amministrazione pubblica, soprattutto per gli inevitabili impatti negativi sull’auspicata e tanto necessaria collaborazione pubblico-privato. E’ ben vero che ad esempio nel caso del Comunale – un’istituzione che dovrebbe essere di fondamentale importanza culturale per fondazioni e i privati dotati di mezzi  – la risposta al grido di dolore è stata quantomeno tiepida ma è anche vero che la sensazione diffusa è che manchi un piano organico di risanamento e sviluppo persino a fronte della normativa imposta del decreto Bray. A tutt’oggi, a meno di 20 giorni dalla data prevista per la costituzione del nuovo organo di governo (31 Dicembre) nulla si sa delle decisioni in materia, nessuna decisione è stata annunciata  nei confronti della gestione del teatro Manzoni (che risulterebbe fortemente indebitata con il Comunale), nessun piano pluriennale di  collaborazione organica e continuativa con altri teatri è stata annunciato, nessuna prospettiva di piena utilizzazione del teatro (oggi a livelli irrisori) è stata abbozzata  e il piano finanziario di risanamento a fronte di debiti (e mutui) appare quantomeno oscuro. Il comune che ancora oggi nella persona del sindaco ha la presidenza del CdA del Comunale dovrebbe obbligare a una maggiore trasparenza e valutare se l’attuale CdA meriti una proroga sotto altra forma o – come succede nelle aziende in perdita – non sia necessario un fisiologico cambiamento di gestione.  Forse a fronte di nuove prospettive i privati potrebbero essere maggiormente invogliati a investire soprattutto a fronte di un piano organico di ritorno d’immagine. 

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La traviata – Milano 7 Dicembre 2013

Ho volutamente atteso due giorni prima di scrivere un post sull’opera rappresentata  sabato 7 Dicembre perché ero certo che  avrebbe scatenato le più accese passioni del pubblico e le più disparate recensioni sui giornali da parte dei critici (ai quali va riconosciuto una velocità impressionante nel predisposrre i loro articoli apparsi compiuti già nei quoditiani di domenica …..). Si parte da una stroncatura feroce di Paolo Isotta sul Corriere a una lode (non sperticata) di Carla Moreni sul Sole 24 ore con valutazioni difformi su cantanti e regia. Tutto secondo copione: “La traviata” a Milano è per sua stessa natura un’opera destinata a scatenare passioni, ricordi e rimpianti (ma quanti sono coloro che hanno assistito all’edizione del 1956 con la Callas e che oggi dovrebbero essere ormai ottuagenari se non nonagenari?).  Partiamo comunque dalla regia e dalla scenografia. C’è una scelta che è diventata ormai regola in molti teatri tedeschi (München e Bayreuth per primi): la regia deve essere un pugno nell’occhio perchè a un regista non interessa il successo ma il fatto che di lui si parli.  La regia di Tcherniakov si uniforma perfettamente a questa impostazione stravolgendo alcuni dei cardini storici dell’impostazione (il convito, il giardino, il letto di morte) passando attraverso una costumistica improntata a un falso moderno (Armani si è infatti dichiarato scandalizzato). Mentre per il convito (trasformato in coktail ) e il letto di morte (qui Violetta è una alcolizzata seduta per terra e poi su una sedia che dopo essersi ingollata un’abbondante dose di whisky chiede ad Annina “un sorso d’acqua”…) la trasformazione può risultare accettabile, la cucina in cui si svolge la scena con il padre Germont è assolutamente ridicola e trove la sua epitome nel furioso maltrattamento della sfoglia e nel taglio delle verdure di Alfredo alla notizia del tradimento (e se si tagliava una mano che si faceva ? Era stata prevista un’ambulanza dalla regia facendo svolgere la scena da Flora in un ospedale fra infartuati e lungo degenti ?). Normale: chi in presenza di una notizia ferale non è sceso in cucina a prepararsi un manicaretto ? E la parrucca di Violetta sempre da Flora che la faceva assomigliare a Scaramacai ? Si potrebbe proseguire a lungo in materia sed de hoc satis ricordando che non è certamente vietato trasporre il tempo di un libretto se si evita di scadere nel ridicolo (a questo proposito ricordo sempre una bellissima messa in scena del Romeo and Juliet della RSA a Stratford-on-Avon negli anni ’70 dove Capuleti e Montecchi giravano su Harley Davidson mantenendo inalterata la tragedia e la poesia della pièce teatrale). Gatti. Ormai è nota la sua propensione ai tempi rallentati che obbligano i cantanti a fiati lunghissimi non sempre alla portata di tutti: si pensi che Bayreuth la sua conduzione allunga il Parsifal (di per sè non cortissimo..) di circa 25 minuti rispetto alla media degli altri direttori. Alcune scelte sono condivisibili (ad esempio l’uso dell’ottava superiore dei violini nell’ultima scena) altre certamente discutibili. In generale l’allargamento dei tempi sottolinea gli aspetti lirici ma trascura quelli più drammatici: sarebbe insomma auspicabile una maggiore variabilità della ritmica. I cantanti: la Damrau è molto nota nel repertorio Mozartiano ma in Violetta trova una nuova natura e la sua interpretazione mi è apparsa di grande qualità anche se qulche incertezza si è potuta rilevare nell’ultima parte del primo atto (con la onnipresenza di Annina – il suo doppio come novello Leporello?). L’Alfredo di Beczala (la cui complessione e assenza di espressione non favorisce di certo una visione drammatica del personaggio – scenicamente è insomma molto, molto carente) si è tenuto su livelli mediamente accettabili senza lode ma anche oggettivamente senza infamia. Lučić nella parte di Giorgio Germont mi è apparso invece assolutamente all’altezza del personaggio per la sua fredda rappresentazione del personaggio con una voce imponente e allo stesso tempo in grado di accenti umani nei momenti (pochi) in cui la sensibilità prevale sulla rigida impostazione patriarcale. Il loggione (e in parte anche la platea) si sono naturalmente scatenati decretando il pollice verso con rumorosi “buh” a Beczala (sarebbe poi interessante sapere su quali basi se non quelle unicamente emotive) e in parte a Lučić. Insomma tutto secondo copione (o libretto in questo caso?).

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Società del quartetto e altro – Milano 4 Dicembre 2013

Milano gode certamente di una posizione privilegiata in campo musicale: oltre ovviamente alla Scala ha società di concerti che nulla hanno da invidiare a quelle di altre capitali europee e americane. E’ questo il caso, fra le altre, di Milano Musica ma soprattutto della società del Quartetto. 21 Concerti, tutti di elevatissima qualità eseguiti quasi integralmente nella sala Verdi del conservatorio (oggettivamente di architettura non esaltante – eufemismo) capace di 1580 posti (circa duecento in più rispetto – ad esempio – al teatro Manzoni di Bologna) a prezzi però molto contenuti: per un abbonamento integrale si pagano 490 euro, che scendono a 80 euro per i giovani sotto i 26 anni e con la possibilità per tutti di abbonamenti selettivi (barocco, Beethoven, pianisti, cameristica) sempre a prezzi concorrenziali. Certo tutto questo è legato alle generose sponsorizzazioni che purtroppo non si riscontrano spesso in altre realtà: è il caso – ad esempio – del ciclo Beethoveniano (che include l’integrale delle sonate interpretate da Andras Schiff)  totalmente  sostenuto da Intesasanpaolo  che è anche il principlae sponsor della Scala.  Va riconosciuto che le tanto e spesso giustamente vituperate banche talvolta assolvono meritoriamente anche al loro compito sociale: non sarebbe questa un’impostazione che altre istituzioni finanziarie dovrebbero perseguire anzichè occuparsi unicamente di profitti, retribuzioni dei managers, investimenti a rischio etc. ? Mala tempora currunt purtroppo in generale!

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Andras Schiff – Milano 3 Dicembre 2013

Andras Schiff ha proseguito ieri sera la sua esecuzione integrale delle sonate di Beethoven per la società del quartetto, eseguendo oltre a tre sonate meno note del secondo periodo Beethoveniano  l’op. 57 (Appassionata) e l’op. 81 (Les Adieux). Che dire? Schiff è interprete raffinatissimo, dotato di grande tecnica sempre al servizio dell’interpretazione con una visione apollinea dell’universo del compositore di Bonn (non per niente è maestro insuperato delle composizioni Schubertiane). Il suono è sempre levigato, raramente con sonorità estreme e anche la visione ritmica dell’interpretazione raramente cede a impulsi virtuosistici. E’ una visione empirea che certamente coglie in pieno nella maggioranza dei casi lo spirito della composizione eseguita anche concedendo a questa impostazione alcuni allargamenti ritmici laddove l’esecuzione “a tempo” potrebbe contraddire l’impostazione stessa. E’ questo il caso di Les Adieux dove l’interprete allarga quanto basta i due passaggi virtuosistici (spesso bestia nera dei rigoristi) del primo tempo fornendo un’esecuzione complessiva mirabile del capolavoro Beethoveniano. Schiff certamente non ha l’impostazione rocciosa di Richter o quella dionisiaca di Gilels e questo ha talvolta riflessi negativi come riscontrato nella sonata op. 57 per la quale il nome con cui è nota rappresenta perfettamente il testo musicale. Questo limite è risultato particolarmente verificabile nell’ultimo tempo della sonata nel quale il tempo staccato è risultato insufficientemente mosso talchè il prestissimo finale aveva la stessa dinamica con la quale la maggior parte degli interpreti (Gilels per primo) affrontano la parte iniziale del brano. Il tutto ha certamente molto ridotto l’impatto drammatico di questo capolavoro trascolorando un dramma in un flebile e moderato lamento, naturalmente sempre nel contesto di una esecuzione di altissimo livello. Il successo giustamente decretato dal pubblico (al quale va riconosciuto il merito di evitare colpi di tosse e altri fastidiosi rumori come peraltro raccomandato dallo speaker all’inizio del concerto – perchè non si adotta questa prassi ovunque?) è stato coronato da due bis Bachiani eseguiti in assenza totale di pedale con un rigore, uno stile e una perfezione di suono che non ha eguali (un’impostazione clavicembalistica arricchita appunto dal piano e forte: il trionfo di Bartolomeo Cristofori!): il concerto italiano integrale e sarabanda e giga di una suite francese. Ancora una volta da lodare l’assenza di inutili e per lo più fastidiose introduzioni musicologiche.

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Haitink-Pollini – 2 Dicembre 2013

Per tutti l’ulteriore assenza di Claudio Abbado dal podio è un segnale assai triste: credo di potermi associare agli auguri sinceri che tutti gli amanti della (buona) musica classica gli fanno di cuore anche nella prospettiva di un ulteriore segnale delle difficoltà dell’orchestra Mozart. Ciò detto il concerto in questione merita una disamina razionale non viziata da aspetti affettivi che esulano dai confini di una critica musicale rigorosa. Chi scrive è stato negli anni  ’70 e ’80 uno sfegatato “Polliniano” ammirando nell’esecutore il rigore stilistico, la tecnica d’acciaio e la capacità di spaziare praticamente su tutto il ventaglio della letteratura pianistica  senza trascurare il repertorio moderno (indimenticabile è stato il suo concerto a Firenze nel ’77 o nel ’78 avente in programma le Diabelli e la seconda sonata di Boulez). Grandissimo sin da quando nel 1960, giovanissimo, vinse lo Chopin, perdonandogli – un po’ a fatica  – anche le follie giovanili dell’immediato periodo successivo fra le quali un primo tempo del “Chiaro di luna” suonato provocatoriamente alla sala Bossi  a tempo di carica. E anche più tardi ho ammirato il suo coraggio quando ha cercato – invano fra i fischi e i buh del pubblico – di legggere prima di un concerto alla società del quartetto di Milano una dichiarazione sulla guerra del Vietnam.  Ma….gli anni passano per tutti e una critica seria non può adagiarsi sul ricordo dei passati allori e deve guardare con occhio (orecchio!) imparziale quanto eseguito nel presente. L’invecchiamento degli esecutori ha effetti diversi: c’è chi come Brendel (fino a quando ha suonato) ha capito che la soluzione risiedeva nel sublimare le proprie capacità interpretative consapevole che le mani subiscono – ohimé – un inevitabile processo di degrado legato all’invecchiamento e chi – come Arrau – ancora a oltre 80 anni pretendeva di suonare al comunale di Bologna il Liszt di “Après une lecture di Dante” con risultati sostanzialmente disastrosi (eufemismo).  La parabola di Pollini si colloca a metà fra questi due estremi. Oggi appare come un artista dall’aspetto invecchiato più di quanto la sua età non dica, persino un po’ demodé con un frack ormai scomparso dalle sale di concerto (a differenza del tentivo giovanilistico di Haitink in completo scuro), che ha mantenuto intatta la propria capacità espressiva ma cui manca la sicurezza degli anni d’oro. L’ “Imperatore” di Beethoven è stato uno dei suoi grandi cavalli di battaglia fin da quando negli anni ’70 suonava con Abbado nelle fabbriche occupate e l’esecuzione di ieri sera è stata in ogni caso mirabile (soprattutto nel secondo e terzo tempo), seppure viziata – specialmente nell’introduzione del primo tempo – da errori che sarebbero stati impensabili dieci anni fa. Ma è questo comunque il repertorio che il nostro deve praticare evitando l’errore nel quale ancora talvolta cade di voler cimentarsi con gli studi di Chopin o altre composizioni di eguale difficoltà con risultati che nulla aggiungono e molto tolgono al suo palmarés.  Insomma onore e gloria senza sconti a un ancora grandissimo artista. Quanto a Bernard Haitink la sua esecuzione della Pastorale di Beethoven rientra nel suo cliché di ottimo professionista senza sbavature ma anche senza particolari risultati positivi. Il gesto è ripetitivo e privo di quella incisività che conduce l’orchestra a risultati di eccellenza (si pensi al gesto sempre misurato ma estremamente significativo di Abbado). Un’esecuzione “nella media” che naturalmente la notorietà e la gradevolezza del brano hanno portato a un successo certamente più legato alla musica Beethoveniana che all’interprete. Pubblico (ovviamente e a prescindere e con numerosi posti vuoti in sala) in delirio con quel rituale trito e provinciale (solo italiano e in particolare bolognese – ci distinguiamo negativamente purtroppo anche in questo campo!) del lancio dei fiori (che talvolta si trasformano in veri e propri pericolosi proiettili per strumenti ed esecutori).

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Meneses-Pires – 25 Novembre 2013

Ho già avuto modo di scrivere in un precedente “post” che i concerti “misti” (quelli nei quali uno dei partner di un duo suona uno o più brani da solo – cosa forse accettabile solo per gli strumenti ad arco essendo la letteratura in materia non troppo vasta) mi lasciano francamente perplesso. In un concerto per piano e violoncello non se ne intravvede proprio la necessità, vista la ricchezza della letteratura in materia, anche per il fatto che essi segnano una sorta di sbilanciamento a favore di un esecutore quasi a sottolineare un suo maggior peso artistico. E’ anche il caso del duo in questione, da lungo tempo affiatato, che ha eseguito brani di grande repertorio, fra i quali spiccano la difficilissima (per il violoncello) trascrizione della sonata “Arpeggione” di Schubert (comparabile ai brani più impervi di Liszt o a Petrushka di Stravinskij per il pianoforte) e la splendida sonata op. 38 di Brahms, caratterizzata dall’assenza del tempo cantabile e con una fuga finale (con licenze) travolgente, una forma musicale non così comune nella letteratura Brahmsiana. L’esecuzione dell’arpeggione da parte di Meneses è stata di ottima ma non eccezionale  qualità (qualche difetto di intonazione si è avvertito) mentre certamente perfetta è stata l’interpretazione del bel Lied ohne Wörter di Mendelssohn.  La sonata di Brahms ha visto un primo tempo forse un po’ esangue rispetto alle indicazioni agogiche dell’autore (Allegro ma non troppo) mentre perfetti sono stati i tempi staccati nel secondo e terzo tempo. Il duo ha certamente fruito di un affiatamento di lungo periodo dando luogo a una godibilissima interpretazione anche se l’esecuzione pianistica della fuga poteva risultare un po’ più precisa (ad esempio nel presto finale).  Di Maria Joao Pires comunque non c’è molto da dire: un’artista che si colloca da oltre 30 anni ai vertici internazionali del pianismo e che nella famosa sonata beethoveniana op. 31 n. 2 (universalmente nota come  “La tempesta” – collocata fa le due sonate della stessa opera n. 1 e n. 3, certamente non ai vertici del compositore di Bonn) ha saputo trovare un magistrale equilibrio fra cantabilità e drammaticità. Insomma un concerto tutto da godere coronato da un bis bachiano  e da un travolgente successo di pubblico (tanto si applaude comunque più la bellezza della musica che la qualità dell’esecuzione …). La solita introduzione  certamente non necessaria.

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The turn of the screw – 19 Novembre 2013

Delle opere di Britten (uno dei pochissimi compositori inglesi la cui produzione è ancor oggi rappresentata ed eseguita) è certamente questa, quella di più difficile interpretazione. Come in quasi tutte le opere del compositore inglese il riferimento è a un testo letterario di valore (nel caso specifico una fosca novella di Henry James dai contorni – volutamente ? – indefiniti)  ed è da sottolineare il riferimento dodecafonico del tema dell’opera (si veda il tema a dodici note dello “screw”) probabilmente scelto nella sua atonalità per sottolineare l’effetto di straniamento che sottende tutto il libretto. La musica riflette infatti perfettamente l’atmosfera incerta e sospesa fra realtà e immaginazione che – seppure alla lontana – non può non richiamare il celebre film di S.Kubrik derivato da  Arthur Schnitzler “Wide shut eyes“. La trama è pressochè non raccontabile anche perchè il suo valore sta proprio nell’incertezza della vicenda e va ascritto a merito del teatro comunale di Bologna l’avere messo in scena un’opera difficile e allo stesso tempo “intrigante” che ha ricevuto dal pubblico un meritato e forse insperato successo (seppure la platea era piena solo a metà…). L’impostazione registica fa ampio uso del “doppio” (un ulteriore tributo – forse per una volta più che giustificata –  a Antonin Artaud – autore de Le Théâtre et son double nonchè fautore del teatro della crudeltà) che contribuisce al clima surreale in cui la vicenda si svolge, alludendo alla possibilità che non solo i bambini siano “posseduti” dai fantasmi dei precedenti  servitori ma che i fantasmi stessi siano proiezioni della psiche della istitutrice (si veda in proposito l’ultima messa in scena di Glyndebourne). Bravi gli interpreti, bravo il direttore e  brava la pianista che svolge – almeno una volta – un ruolo importante nella compagine orchestrale.

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Roberto Cominati – 18 Novembre 2013

I brani musicali vivono di “cicli”: alcuni scompaiono dai cartelloni per periodi più o meno lunghi (si pensi alle “Novellettes” di Schumann), altri ricompaiono dopo periodi di oblio. Siamo certamente in un periodo di “parafrasi-renaissance” forse anche perchè gli esecutori debbono trovare brani non troppo ripetuti e conosciuti, non fosse che per evitare di incorrere in confronti talvolta impietosi. Un genere non privo di rischi, la trascrizione, per il tentativo, spesso perpetrato dagli esecutori, di trasformare il pianoforte in  una sorta di orchestra riempiendo l’uditorio di decibel pericolosi per l’udito. Roberto Cominati (premio Busoni) ha fatto del suo meglio in un programma di tutte trascrizioni e certamente ha tenuto un concerto di buona levatura, grazie anche al fatto di essere sorretto da un’ottima tecnica (elemento indispensabile per le trascrizioni) e da un significativo senso della misura.  Certamente dei brani in programma quelli relativi alle trascrizioni di Liszt delle opere wagneriane sono quelli di maggior levatura musicale e in particolare mi riferisco alla trascrizione del “Liebestod“, nel quale si percepisce la vicinanza del compositore di Weimar al suo (contrastato) genero e in particolare al Tristan und Isolde, opera della riconciliazione dopo l’ “affaire Cosima”. Meno interessante è la trascrizione dell’ouverture dei Meistersingers von Nürenberg della quale esiste una bellissima (e poco nota)  trascrizione di Glenn Gould. Le trascrizioni verdiane di Liszt (Aida e Don Carlos) tradiscono invece la distanza culturale dei due mondi musicali mentre interessante (ma musicalmente di scarsa qualità) è la trascrizione della Sarabanda e Ciaccona di Händel. Sulle altre due trascrizioni  (Pabst e Martucci) rispettivamente dell’ Evgenij Onieghin (trasformato in un valzerino da “café chantant” trascurando la splendida aria del turbamento di Tatiana ) e della Forza del destino si può stendere un velo pietoso e riconsegnarli senza rimpianti a quell’oblio dal quale sono stati incautamente richiamati. Due bis: “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Händel e (come stupirsi ?) il gran finale con La danza delle spade di Aram Kachaturian. “Naturalmente” caloroso successo (non immeritato per quanto riguarda Cominati). Sempre concisa e ben congegnata  l’introduzione di Maria Chiara Mazzi

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Bagnara-Micheletti – 16 Novembre 2013

Il Lied è un genere musicale particolare, poco praticato in Italia, e nel quale l’equilibrio fra voce, piano, testo e musica non può essere improvvisato. A ciò si aggiunga che avere grandi mezzi vocali può essere un vantaggio ma anche uno svantaggio se non si riesce a ottenere un controllo perfetto delle sonorità, una variazione timbrica con molte sfaccettature e una conoscenza approfondita del testo. La soprano (ma forse sarebbe meglio dire la mezzosoprano) Benedetta Bagnara possiede una bella voce drammatica che certamente trova in molte opere un terreno fertile adatto alle sue capacità, ma che solo saltuariamente riesce a entrare nello spirito del Lied eseguito. Ciò è tanto più vero per gli autori della serata (Wolf e Wagner) nei quali i cromatismi e le armonie presenti richiedono una intonazione perfetta e un controllo ferreo dell’emissione. Non è stato sempre così: ad esempio nel Lied “Stehe still” dei Wesendonk di Wagner la prima parte è risultata aspra e urlata e la seconda parte – di impostazione del tutto contrastante – insufficientemente calma. A maggior ragione ciò è risultato nell’ultimo dei Wesendonk (Träume)che anzichè un tono elegiaco ha avuto una drammaticità del tutto in contrasto con il testo e la parte musicale fino a trasformarsi in una sorta di “Albträume“. Nei Lieder dell’ “Italienisches Liederbuch” di Wolf è mancata quella sottile ironia che li sottende legata al carattere popolare – di derivazione italiana – dei testi di Paul Heyse e la monotonia della drammaticità della voce ha inficiato l’esecuzione del famosissimo Lied “Kennst du das Land” su testo di Goethe tratto dal “Wilhelm Meisters Leerjahre”. A parziale discolpa del soprano va ascritta la pochezza dell’accompagnamento pianistico assolutamente inadeguato al repertorio eseguito (si veda ad esempio il Lied un po’ folle di Wolf “Wie lange schon war immer mein Verlangen” nella cui lunga coda pianistica è indicato un “ad libitum” che dovrebbe essere eseguito come da una sorta di ubriaco e che invece ha avuto un andamento quasi metronimico).  Insomma una serata con alti e bassi (perchè poi un Lied di Wolf su testo di Eichendorf fra  due serie dell’ “Italienisches Liederbuch”? ) e una mezzosoprano che potrà avere successo nel repertorio drammatico dei teatri lirici ma che per il Lied al momento non è ancora pronta.. Come sempre un’inutile presentazione iniziale, solo di contenuto letterario nella quale, fra l’altro, il relatore è incorso in un errore non secondario: I Wesendonk – “Fünf Gedichte für Frauenstimme und Klavier” – nella versione orchestrale non sono stati orchestrati da Wagner bensì dal direttore d’orchestra e amico Felix Mottl (e poi da Vieri Tosatti) se si eccettua “Träume” di cui esiste una versione per piccola orchestra originale wagneriana, dono del compositore a Mathilde per il suo compleanno.

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Andrea Padova – 14 Novembre 2013

L’intelligenza di un esecutore si misura non solo dall’esecuzione ma anche dalla percezione del contesto in cui un concerto viene tenuto. Nel caso specifico la sala Mozart dell’Accademia Filarmonica è un sito angusto e per il concerto in questione riempita per meno della metà (ad occhio 40 spettatori). Ne consegue che un pianoforte a coda con il coperchio completamente aperto produce un volume di suono che è perfetto per una Philarmonie o per il Manzoni o per La Scala ma è una mina vagante per un sala così piccola.  Ne ha fatto le spese Andrea Padova la cui esecuzione non ha potuto esprimere quelle qualità che forse (forse sottolineo) il pianista in questione è in grado di fornire. Ciò detto va detto che l’impostazione esecutiva non è totalmente condivisibile. Le miniature di Cimarosa hanno mancato di quella leggerezza che ne fanno dei piccoli gioielli e lo stesso dicasi per le sonate scarlattiane: si confrontino per comprendere il significato della frase con l’esecuzione della sonata del contemporaneo Galuppi o delle sonate scarlattiane eseguite da  Arturo Benedetti Michelangeli. E mentre per quest’ultimo alcune licenze ritmiche e interpretative risultano accettabili nell’ambito di un’esecuzione globalmente eccezionale, le stesse licenze in un esecutore di media qualità stonano e sono sostanzialmente forzature innecessarie. Nella seconda parte lo Chopin eseguito ha sofferto degli stessi limiti; fortissimi dove l’indicazione è un forte, assenza di piani (soprattutto nella barcarolle) etc. etc. Al limite dell’umorismo la scelta di eseguire per bis la metà di un valzer di Chopin e la metà di una sonata Scarlattiana. Il tutto concluso da un brano a me ignoto ma certamente non memorabile.

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Andras Schiff – Milano 12 Novembre 2013

Artist in residence” della società del Quartetto per l’esecuzione integrale delle sonate di Beethoven, Andras Schiff ha eseguito le tre sonate della prima metà del periodo di mezzo del compositore: le tre sonate dell’opera 31 e l’opera 53 “Waldstein”. Le sonate op. 31 n.1 e 3 non possono essere certo ascritte ai grandi capolavori Beethoveniani (specialmente il secondo tempo dell’op. 31 n. 1 ove un fastidioso accompagnamento della mano sinistra sembra scritto da Beethoven …. con la mano sinistra) mentre la seconda delle tre sonate (denominata  “La tempesta”) è giustamente celebre e molto eseguita per la sua drammatica tempestosità. Andras Schiff è un grande artista, giustamente noto, ma la sua indole apollinea ha progressivamente, totalmente cancellato quella dionisiaca per cui l’ultimo tempo della “tempesta” (eseguita con esasperante lentezza e con sonorità sempre attenuate) è apparso più come un soave Lied schubertiano che come il finale drammatico immaginato dal compositore di Bonn. Certamente molto più consona al dettato musicale è stata l’esecuzione della Waldstein, specialmente nell’incipit soave e disteso dell’ultimo tempo ove il tocco e la profonda semplicità espressiva del pianista hanno ottenuto i migliori risultati. Ad Andras Schiff risulta tutto facile, quasi troppo, inducendo l’artista ad alcune libertà espressive e ritmiche che possono essere discutibili in un autore di forte connotato classico come Beethoven specialmente nel suo periodo di mezzo (altro discorso vale per le ultime opere). Non che il risultato risulti sgradevole all’ascoltatore, tutt’altro, ma è anche vero che il rispetto rigoroso – senza forzature – del dettato musicale è a parere di chi scrive una delle caratteristiche esecutive cui è opportuno attenersi. Naturalmente meritato grande successo coronato da tre bis che sembrano essere stati scritti apposta per il pianista ungherese: gli ultimi due tempi della prima partita di Bach, un improvviso schubertiano e una delle ultime bagatelle di Beethoven (annunciati dall’esecutore con la stessa, inaudibile suavità che corrisponde alla sua cifra esecutiva…) .

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Quartetto Emerson – 11 Novembre 2013

Suonando “in pe’ ” (come la Veronica di Jannacci – violoncello a parte ovviamente, di una bravura assolutamente eccezionale) il quartetto Emerson ha fornito una vera prova maiuscola sotto ogni aspetto. Intonazione perfetta, intercambiabilità dei ruoli di primo violino, suono incantevole, affiatamento eccezionale sotto ogni aspetto: insomma uno di quei concerti entusiasmanti che raramente si ascoltano e che si vorrebbe non terminassero mai. Il programma ha spaziato dal ‘700 con Haydn fino al ‘900 di Bartok passando per uno dei Razumovskji di Beethoven: peccato che la lunghezza dei tre quartetti abbia impedito una loro successione esecutiva che rispecchiasse la successione temporale della loro composizione. Di fronte a questo tipo di concerti non c’è molto altro da dire se non che persino l’introduzione iniziale (dal sottoscritto normalmente detestata) e tenuta da Maria Chiara Mazzi è stata – come sempre nel caso della relatice in questione -all’altezza della serata: concisa, pregnante, priva di sbavature  e di grande contenuto culturale.Applauso senza riserve anche da parte del pubblico delle grandi serate.

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Shokakimov-Grazia – 8 Novembre 2013

Esuberanza, questa è la cifra intepretativa del giovane direttore Shokakimov che ha segnato l’esecuzione di tutti i brani in programma. Adatta alla composizione d’occasione di Brahms (l’Overture accademica op. 80 che non riesco a non classificare come un brano composto con la mano sinistra dal compositore che per molti aspetti ritengo il maggiore dell’800) ha mostrato i suoi pregi e i suoi limiti negli altri due brani. Certamente da lodare in generale nella V di Mahler (se si eccettua l’Adagietto che proprio per la sua impostazione intimistica e di voluto contrasto rispetto agli altri tempi avrebbe meritato una impostazione più sognante) il nostro  ha trovato la sua massima espressione nella fuga multitematica (con libertà) dell’ultimo tempo che ha giustamente suscitato l’entusiasmo del pubblico. La prova dell’orchestra del teatro comunale di Bologna è stata come sempre con alti e bassi: purtroppo la serata non felice (e non infrequente…) degli ottoni è stata accentuata dai “soli” che costellano l’intera opera.  Una prestazione maiuscola è stata quella dell’oboista Paolo Grazia (che suonava “in casa”) che ha reso con espressività, suono perfetto e grande tecnica la difficile e bellissima partitura di Strauss, un “unicum” fra le ultime composizioni del compositore di Monaco per l’assenza di quelle armonie di riminiscenza Wagneriana che tanto caratterizzano la sua produzione. Un brano per certi aspetti “intimistico” che si attaglia perfettamente al suono dolce e struggente dell’oboe. Peccato che la direzione di Shokakimov non abbia saputo nel caso in questione sottolinearne le caratteristiche attraverso la riduzione del volume del suono, seguendo e non trascinando il ruolo dell’oboe. Ma Shokakimov è giovane e probabilmente con l’età e con l’esperienza avrà la possibilità di maturare e di mettere a frutto appieno le sue non comuni doti naturali. Successo incontrastato, soprattutto per Grazia.

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Roberto Cappello – 7 Novembre 2013

Ebbene sì, sono uscito dopo la prima parte al fine di preservare i miei timpani sottoposti a  un bombardamento sonoro pericoloso da parte di un incolpevole pianoforte al quale, per giunta, era stato totalmente aperto il coperchio.. Dopo avere vinto meritatamente il Busoni del 1976 (cui ho assistito essendo in vacanza a Ortisei) la carriera di Roberto Cappello non è stata quella che la vincita del prestigioso premio avrebbe fatto sperare e il concerto di questa sera, dedicato alle trascrizioni Lisztiane dei Lieder di Schubert, Schumann e Chopin – cosa ci facesse poi  alla fine la polacca op. 53 di Chopin non si capisce – ne dà completa ragione. In Cappello ogni qualità si è trasformata in quantità, ogni occasione è buona per pestare senza pietà sulla tastiera come si trattasse di un’incudine da parte di un lottatore di sumo. Gretechen anzichè soffrire all’arcolaio sembrava avere imbracciato una colubrina che sparava all’impazzata, il melanconico “Auf dem Wasser zu singen” poteva avere il titolo cambiato in ” In der Sturm zu klagen”, Du bist die Ruhe ” (Ruhe=pace) trasformato in una gragnuola di suoni da granditata etc. E’ ben vero che nelle trascrizioni Lisztiane il tema del Lied viene sviluppato con alcune concessioni al virtuosismo con alcuni ff ma vivaddio esistono anche i piani, i crescendo, i diminuendo etc. Niente di tutto questo: tutto sff, insomma un vero disastro. Al nostro (il cui abbigliamento alla Berlusconi giovanilistico faceva il paio con l’ interpretazione) consiglierei un ascolto attento degli stessi brani suonati da Jorge Bolet, un pianista scomparso da alcuni anni e non al vertice dei miei preferiti, che potrebbe però impartigli una severa lezione in materia. Una serata tutta da dimenticare e in fretta.

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Boris Petruschansky – 6 Novembre 2013

Dopo avere steso un velo pietoso sull’ “introduzione” si può certamente dire che il concerto è stato di grande interesse. L’accostamento fra alcuni brani della Gubajdulina di riminiscenza barocca (bellissima la Ciaccona!), 6 preludi e fughe dal Wohltemperiertes Klavier di Bach e 5 preludi e fughe di Šostakovič è risultato particolarmente felice permettendo al folto pubblico di apprezzare il fil rouge che lega questi autori così diversi e così lontani nel tempo. Il punctum contra punctum, all’origine di queste composizioni, rivela tutta la sua potenza espressiva e la sua resistenza allo scorrere del tempo. L’esecuzione di Petruschansky è stata – questa volta – assai superiore ad altre per le quali molti aspetti potevano lasciare quantomeno perplessi. Dopo un’esecuzione misurata dei brani della Gubajdulina, i 6 preludi e fughe di Bach sono stati eseguiti con rigore e rispetto dello stile, con grande equilibrio fra le necessità espressive e la costante aderenza al dettato clavicembalistico bachiano.  Per quanto riguarda l’esecuzione delle composizioni di Šostakovič (la cui tenebrosità e la prevalente preferenza per il registro basso rispecchiano certamente l’atmosfera di incertezza e di terrore del suo periodo compositivo) – un terreno molto conosciuto dall’esecutore che ne ha inciso l’integrale – il giudizio non può che essere positivo anche se non sono mancati quegli eccessi sonori (una intera fuga è stata eseguita a un numero di dB che ha rasentato la soglia del dolore) che purtroppo non mancano mai nel pianismo di Petruschansky e che rappresentano il limite della sua cifra interpretativa.  Un meritato successo, comunque, coronato da tre bis due dei quali facenti riferimento a melodie e ritmi popolari russi e uno derivato da una partita bachiana. 

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Mustafić-Maurizzi – 30 Ottobre 2013

Cominciato con la solita ed inutile introduzione iniziale (sembra proprio che non sia possibile liberarsene: ma gli organizzatori hanno mai fatto un sondaggio in materia?) peraltro lodevolmente improvvisata da Pierpaolo Maurizzi che della cosa non era stato informato e che ha comunque confezionato un discorso breve e pertinente, il concerto si è sviluppato su Lieder di Brahms, Berg, Schönberg e Wolf. Il soprano Mustafic, non più giovanissima, ha fatto del suo meglio in un repertorio certamente non facile e non del tutto confacente alla sua voce leggera e più Mozartiana: una buona intonazione, un registro intermedio piuttosto monocorde (nei Lieder!) e una buona espressività nel registro alto. Ad esempio nel famosissimo “Von ewiger Liebe” di Brahms è completamente mancato il pathos che lo contraddistingue nonostante i lodevoli sforzi del pianista (sempre all’altezza della situazione) che ha ripetutamente tentato di trascinare il soprano. Non c’è molto altro da dire; un programma così interessante avrebbe meritato ben altre capacità vocali. C’è invece da dire su altri aspetti. In primo luogo il piano totalmente aperto ha spesso soverchiato la voce, la soprano canta quasi esclusivamente con le braccia sconsolantemente a penzoloni e dando le spalle al pianista (ahi, ahi l’arte scenica: si guardi la Mustafić i concerti di Angelika Kirschlager o di Teresa Berganza!) e si è presentata due volte per gli applausi senza il pianista (il solito malinteso dilemma: pilota-auto, cavaliere-cavallo etc.)  con un atteggiamento da anni ’50 quando ai pianisti veniva suggerito di scomparire il più possibile (in molti casi il cantante obbligava a troncare la coda di un Lied se – come nel caso di Schumann – il Lied terminava con il piano solo !). A questo si aggiungano errori nel programma di sala, sia nella versione tedesca delle poesie (ma copiare è così difficile?) che nelle traduzioni quantomento discutibili (soprattutto per il primo Lied di Brahms  – Der Tod, das ist die kühle Nacht). Una serata non memorabile.

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Maria Perrotta – CD Decca

Come out of the blue”  e iniziando una carriera a una età considerata ormai  “difficile” dal momento che i giovani leoni del settore risultano vincitori di concorsi importanti in generale prima della prima metà dei loro anni venti, Maria Perrotta dopo avere vinto premi internazionali di prestigio si presenta al pubblico discografico con l’incisione dei tre ultimi capolavori sonatistici Beethoveniani, una sfida che molti grandi interpreti affrontano spesso solo nella piena maturità anagrafica e interpretativa. La sonata op. 111 in particolare viene considerata come il testamento sonatistico del grande compositore tedesco terminando con quella  “arietta con variazioni” in do maggiore che per molti anni ha inibito i compositori che non si attentavano a proporre brani nella stessa tonalità. La sonata è stata oggetto di infinite esegesi (anche escatologiche) e  interpretazioni (si pensi ad esempio al Doktor Faustus di Thomas Mann) che hanno dimenticato che dopo l’opera 111 Beethoven ha composto molte importanti composizioni (anche pianistiche – ad esempio le variazioni op. 120 su un tema di Diabelli) e in particolare gli ultimi quartetti, questi costituendo veramente il suo testamento musicale. Ed è curioso ricordare che interrogato sul perché mancasse un ultimo tempo alla sonata 111 Beethoven rispose “che non aveva avuto tempo“: un ennesimo esempio di come le percezioni del compositore e degli esegeti possano essere totalmente difformi.  Tornando comunque al CD si può senza tema di dubbio affermare che la Perrotta è “up to the job” e che la sua interpretazione può inserirsi senza incertezze fra quelle di grande valore. Come sempre in questi casi e sempre mantenendosi a grandi livelli (e quindi entrando in una sfera personalissima di gusti individuali) appare a chi scrive che il vertice interpretativo del CD venga raggiunto nell’adagio dell’op. 110 mentre qualche riserva si può avanzare riguardo alla fuga della stessa sonata e in particolare nella scelta di alcuni ff improvvisi che – seppure indicati da Beethoven – sul pianoforte usato dal compositore avevano certamente un effetto diverso da quelli delle gran code moderne e come tali sarebbe preferibile venissero altrimenti interpretati sfumandoli magari in un crescendo senza rotture improvvise. Impeccabile è l’esecuzione della summenzionata arietta dell’op.111 nella quale gli equilibri sonori richiedono grandi capacità di controllo della tastiera e altrettanto dicasi per l’op. 109 (particolarmente nell’ultimo tempo – le variazioni paiono essere particolarmente nelle corde dell’esecutrice), seppure alcune intemperanze ritmiche nel primo tempo appaiono innecessarie all’apollinea atmosfera della partitura. Un CD, insomma, che rafforza l’impressione che la carriera di Maria Perrotta possa raggiungere grandi risultati sul piano internazionale; naturalmente l’aspettiamo alla prova in altri campi del repertorio pianistico (ad esempio i grandi romantici Chopin e Schumann e la pietra di paragone – a giudizio di chi scrive – Brahms)  ma fin d’ora il giudizio non può che essere totalmente positivo.

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