Category Archives: Operistica
Don Giovanni – Berlino Komische Oper 23 Giugno 2015

Ci ho riprovato dopo molti anni: un altro Don Giovanni alla komische Oper. È questa un’opera purtroppo abusata che richiede un grande equilibrio fra la commedia e la tragedia e che ormai solo con grandi casts e scenografie può presentare qualcosa di nuovo. Non è questo il caso della rappresentazione in questione che pur evitando le grossolanità che mi allontanarono per lungo tempo da questo teatro d’opera non rientra certamente nel novero delle messe in scena memorabili (e che comunque qualche scurrilità non se la risparmia), anzi tutt’altro. Un teatro “artigianale” per spettatori di bocca buona che si godono uno spettacolo modesto o meglio mediocre, a cominciare dal fatto che è cantato in tedesco!!! Ma come si permettono questi malfattori musicali di compiere nel 2015 un simile scempio? E pensare che dopo il restauro la komische Oper ha un display sul retro delle poltrone come quello della Scala che fornisce tutte le traduzioni, turco (!) incluso! Insomma si comincia male. Poi la prima sorpresa negativa. L’opera comincia con l’aria di Leporello, e l’omicidio del commendatore durante il quale Leporello scarica le proprie condutture idriche e Don Giovanni non trova la spada per avere messo male a tracolla il cinturone (si ride). L’ouverture viene eseguita dopo!! Don Giovanni è truccato come il Joker di Gotham City (Schopenauer si rivolta nella tomba) ed è vestito con una “mise” indefinibile da domatore del circo
Leporello (gigantesco) come un sacerdote di Satana con guanti rossi fìno al gomito, Donna Elvira come una sciantosa in giallo
mentre Donna Anna sembra la regina di cuori di Alice in Wonderland. Zerlina per motivi ignoti veste come una contadina bulgara nel dì di festa e indefinibili sono i costumi di Masetto e di uno stralunato Don Ottavio che ricorda Michael Gambon nelle Norman Conquests di Alan Ayckbourne. Don Giovanni e Leporello interpretano alla Ridolini come scioglilingua i recitativi (nei quali manca ovviamente l’accompagnamento). Tutta la scenografia è percorsa da salti, gags da avanspettacolo e di ammiccamenti al pubblico che naturalmente alla platea e alla galleria della komische piacciono moltissimo (risate e applausi) e a me provocano conati di vomito e desiderio di vendetta con tortura (se ne accorge persino la mia vicina di poltrona, anch’essa schifata dallo spettacolo). Durante il racconto dell’omicidio del padre da parte di Donna Anna Don Ottavio si tiene con una mano gli attributi quasi temesse un qualche influsso negativo sull’apparato riproduttivo. Giusto come ciliegina sulla torta non viene eseguito il finale dopo la discesa di Don Giovanni agli inferi, mentre la scena madre della cena è priva di tavolo (i personaggi mimano tutto) e il commendatore anziché una statua è un personaggio che si muove in carne ed ossa (e dove è allora il convitato di pietra a partire da Tirso de Molina?). La scena è composta sempre e solo da teli simil-pizzo che si muovono coprendo e scoprendo i personaggi che via via si presentano sulla scena. Ha senso affondare ulteriormente il coltello in una regia che merita solo di essere rapidamente dimenticata dopo essere stata mai sufficientemente infamata? Le voci: il migliore è il Don Ottavio (lo scemo del villaggio della storia, cornuto e mazziato) di Adrian Stooper e molto brava è anche Zerlina con una voce aggraziata e di grande agilità (Anna Brull). Donna Elvira (Karolina Gumos) ha qualche difficoltà a fare uscire la voce dalla gola ma esegue con grande maestria l’ultima grande aria prima del finale. Don Giovanni (Günter Papendell) è difficilmente giudicabile data il modo in cui si muove sulla scena: diciamo che è sufficiente. Senza infamia (ma senza lode) Donna Anna (Erika Roos) cui manca il lato drammatico della voce (mica poco!), il commendatore (Hans-Peter Scheidegger) e Leporello anch’esso travolto dall’avanspettacolo. Masetto (Philipp Meierhöfer) è forse il peggiore della compagnia. Non male l’orchestra diretta da una donna (finalmente!) Kristiina Poska. Se nel corso della mia vita tornerò a vedere un Don Giovanni alla komische Oper (teatro d’opera dell’anno a Berlino!!!!) chiunque è fin d’ora autorizzato a interdirmi per evidente incapacità di intendere e di volere.
PS Debbo delle scuse per una frase del mio precedente post sul concerto Pape Barenboim. La frase “italietta del melodramma” si presta infatti a un’interpretazione non corrispondente al mio pensiero. Lungi da me qualsiasi esterofilia. Con quella espressione mi riferivo solo a quegli spettatori italiani che accettano solo il repertorio italiano, sopportano a fatica alcuni compositori stranieri (Mozart), rifiutano Wagner, Weber, Gluck e disertano i concerti liederistici. E’ una forma di assenza di cultura con elementi di sciovinismo inaccettabile. Assolutamente nessuna intenzione di sottovalutare l’opera (che è un concetto ben più vasto di quello di melodramma) come comprovato dal fatto che ne sono un regolare frequentatore. Insomma absit iniuria verbis.
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Rigoletto – Berlino Komische Oper 20 Giugno 2015

Da molti anni mi ero rifiutato di assistere a spettacoli della Komische Oper (uno dei tre teatri d’opera di Berlino) dopo avere visto un Don Giovanni vergognoso e grossolano, tutto in chiave più che esplicitamente sessuale, rappresentato in lingua tedesca (!) e piagato da una massa di studenti rumorosi per niente interessata all’opera, talché sono uscito dopo il primo atto. Avevo scritto una lettera di vibrata protesta al direttore artistico senza ricevere risposta, il che dimostra che i maleducati albergano ovunque. Dopo alcuni anni di decantazione ho deciso di riprovare con questo Rigoletto, quantomeno cantato in italiano e con il teatro diretto da diversa persona che nell’ultimo anno ha ricevuto unanimi consensi. In effetti la musica (!) è cambiata. In una scena spoglia nella quale oltre ai protagonisti si trova solo una cassa che via via nelle sue varie posizioni fa da casa a Gilda, da alcova, da cassa da morto, e un orologio a forma di nano che scandisce le mezzenotti si muovono i personaggi contornati via via da maschere grottesche che assumono le forme dei pagliacci, delle scimmie, di ragazzotti strafottenti etc. insomma una tipica situazione da “nani (ce n’è uno vero in scena) e ballerine”. Una visione grottesca della storia (in accordo peraltro con un libretto risibile) che trova però una sua accettabile cifra interpretativa proponendo uno spettacolo tutto considerato abbastanza godibile, non fosse che da un punto puramente folkloristico, anche se non sono mancate alcune cadute di gusto tipiche della Komische Oper con nudi e violenze esplicite del tutto innecessari. Un’ottima Gilda (Nicole Chevalier) che ha brillato soprattutto nel primo atto nella sua aria solistica (e presentata poi alla fine con una vistosa pancia da donna incinta, miracolo della medicina per una violenza che si svolge nel giro di un giorno!) e ottimo anche Rigoletto (Alejandro Marco-Buhrmester), anche se è mancata la parte più mefistofelica del personaggio. Passabile il duca di Mantova (Rafael Rojas) mentre assolutamente inadatto è stato Sparafucile (Alexey Antonov) che nel necessario registro basso è risultato sostanzialmente afono. Senza lode e senza infamia la direzione dell’ignoto Henrik Nánási.
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Il suono giallo – Bologna Teatro comunale 13 Giugno 2015

Preceduta da un battage pubblicitario a mo’ di fuoco di sbarramento (pubblicità a pagine intere sui giornali locali, persino prezzo ridotto a chi si presenta con qualcosa di giallo al botteghino – che però sono tutte implicite ammissioni di affanno nelle vendite!) in ossequio alla tradizione recente del teatro Comunale che prevede in ogni stagione una novità (iper)moderna (incluso lo sventurato Qui non c’è perché) viene ora presentato Il colore giallo. Ho assistito diligentemente alla presentazione dell’opera il giorno 4 Giugno alla presenza di tutti i protagonisti dell’avventura musicale (Sani, Dessì, Solbiati, Ripa di Meana) in quanto volevo arrivare allo spettacolo preparato. Confesso che date le mie limitate capacità mentali ho veramente capito poco, ma certo un vago senso di fumosità nelle espressioni mi è parso di coglierlo (forse solo perché non appartengo alla confraternita dei compositori che “fra loro – Sani e Solbiati – si intendono” – testuale nella conferenza). La colpa è senza dubbio legata alla mia esasperata razionalità di ingegnere incapace di cogliere i messaggi subliminali che hanno permeato le presentazioni. “Il suono giallo” (che già nel passato ha avuto alcune “realizzazioni”) si rifa a un’ipotesi teatrale di Kandinskij (che però ha lasciato poche tracce, insufficienti per un libretto teatrale) integrate dalle considerazioni mai pubblicate del grande pittore rielaborate dal compositore Solbiati. Il risultato è certamente un testo onirico, composto da frasi fra loro non raccordate e più allusive che determinate. Un testo da cui farsi trascinare più che da analizzare e che trova la sua dimensione nella fusione di testo, impressioni visive e suono. Insomma una rappresentazione “globale” nella quale individuare i valori delle singole componenti sarebbe operazione inutile e limitante. Ciò detto, lo spettacolo è in parte accettabile purché si rinunci a qualsiasi correlazione fra testo, scenografia e musica. Mentre l’azione teatrale è quantomeno criptica (e le spiegazioni – diagrammi temporali inclusi- nel programma di sala di certo non aiutano) nonostante lo sforzo lodevole dei giovani della Galante Garrone, vi sono alcuni episodi musicali apprezzabili e segnatamente il coro del prologo e dell’epilogo. Purtroppo il tutto inframmezzato da lunghi intervalli nei quali la musica, come tale, di fatto tace.
Da un punto di vista scenografico sarebbero stati interessanti i 5 giganti che ricordano da vicino quelli degli anni migliori del Living Theater di Julian Beck e Judith Malina. Purtroppo a differenza di quanto riportato nel libretto di sala la loro presenza è assai limitata (una sola scena) e di scarsa incidenza mentre sono mancati quegli episodi di danza che avrebbero dovuto arricchire la rappresentazione.
Non brillante è invece l’azione teatrale che è apparsa pretenziosa e rapportabile a una via di mezzo fra un balletto moderno e un saggio ginnico. A parziale discolpa (come nel caso della musica) può essere ricordato che il testo Kandiskiano non presenta alcun appiglio concreto cui fare aderire l’azione che indipendentemente dalla buona volontà dello scenografo risulta comunque astratta. Nel suo astrattismo, comunque, è risultata übertrieben, non strettamente in sintonia comunque con le prescrizioni del compositore Solbiati
Una nota di biasimo va invece al traduttore del testo tedesco Kandiskiano. Per fare un esempio, “bei Fluchen Gebete” non si può tradurre “da bestemmie preghiere” bensì “durante le bestemmie preghiere” e quindi meglio “bestemmiando pregare”. “Bei” ha un significato temporale alterando il quale si altera tutto il significato della frase. Concludendo: per la mia scarsa immaginazione nessun suono ha colore (seppure una volta un pianista mi disse che la tonalità di sol diesis minore aveva per lui il colore viola! Non ho avuto l’ardire di chiedergli enarmonicamente cosa pensava di la bemolle minore…) e mi chiedo se per caso non mi manchi qualche sensibilità cromatica o sia affetto da daltonismo in fase avanzata di sviluppo che richieda un urgente intervento di uno specialista. Né mi ha fatto cambiare sensibilità la rappresentazione del comunale. La musica di Solbiati è solo saltuariamente accettabile, il testo ha poco significato e la scenografia è carente. Di certo non siamo in presenza di un abisso di gusto come nel caso di “Qui non c’è perché” ma il giudizio complessivo sull’opera (per la quale il compositore ha rinunciato – meritoriamente – all’uso dell’elettronica) volendo usare un’espressione eufemistica è solo parzialmente non negativo: certamente non troverà posto in nessuna storia dell’opera del futuro nonostante il lodevole ma inutile sforzo dei giovani della Galante Garrone, dell’orchestra e del coro che sono apparsi poco legati da un unico filo conduttore.
PS Seppure spesso confortato dai giudizi di famosi critici musicali e dal Corriere Musicale (non sempre peraltro) mi capita talvolta (non spesso!) di confrontarmi con persone che hanno goduto di spettacoli da me giudicati scadenti. Certamente vale il detto che de gustibus… ma soprattutto, proprio perchè per quanto riguarda le sensibilità vale la massima tot capita tot sententiae, il mio è soprattutto un senso di invidia per chi ha avuto la fortuna di godere di ciò di cui non sono stato capace. E non importa se alla domanda quali siano stati gli elementi positivi non si hanno risposte razionali (una razionalità che spesso in questo contesto è innecessaria e addirittura limitante) e le risposte siano vaghe o inesistenti. Hanno ragione loro!
PPS Con il presente post mi congedo temporaneamente dalle recensioni italiane: fino alla fine del mese sarò a Berlino e recensirò alcuni spettacoli della capitale berlinese.
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Die Zauberflöte – Bologna Teatro Comunale 16 Maggio 2015
Una Zauberflöte così (in tedesco è femminile!), che in campo mozartiano aveva generato – dopo il flop di “Così fa tutte”della scorsa stagione – grandi aspettative sapientemente orchestrate dalla stampa locale e dalla sovrintendenza del teatro, con stereoscopia e scomodissimi occhialini 3D al seguito forniti agli spettatori (con i quali spesso si vede solo la “stereoscenografia” dei video e non i cantanti), non l’avevamo mai neppure ipotizzata (e speriamo di non rivederla più). Stante che il palcoscenico è per sua natura tridimensionale, la scomodità degli occhialini rossoverdi – da Guinness dei primati per i teatri d’opera la ridicola vista panoramica del pubblico in sala! – non è compensata da una plasticità stereoscopica della scena e quindi in ultima analisi è “dispensabile” (a differenza di quanto avviene al cinema). Affidandosi ad aspetti visuali (drammaticamente, noiosamente ripetitivi) e non a scenografie solide nel senso stretto della parola si viene a creare un assurdo spazio vuoto fra il proscenio e lo schermo del fondale talché i cantanti sono piazzati dal direttore per lo più proprio sul proscenio onde evitare conseguenze acustiche negative legate al vuoto della scena. Per tutto c’è una prima (e speriamo ultima) volta…
L’idea di considerare la vicenda della Zauberflöte come una favoletta inventata e gestita da due mocciosi poco espressivi vestiti alla marinara (massoni in erba anche loro?), ossessivamente presenti sullo sfondo, semplicemente non funziona: è velleitaria e inutilmente accattivante, insomma totalmente fuori dallo spirito così polivalente dell’opera. Un’impostazione assai difficile da sostenere che, ove mai fosse ipotizzabile, avrebbe comunque richiesto una compagine registica di ben altro livello. Analogamente risulta noioso e ripetitivo l’ andirivieni dei pannelli a mo’ di otturatore fotografico, un artificio che è come il gioco: bello fin che dura poco… Se poi la presenza dei solisti e del coro in sala con illuminazione da café chantant è il nuovo che avanza c’è di che stare “freschi”. Che la perfida regina della notte si palesi da un cono a pan di zucchero, che ricorda le dolcezze dei “baci” Perugina in versione natalizia più che la volta celeste, è semplicemente ridicolo (anche perchè l’ “aggeggio” dopo l’apparizione rimane in palcoscenico senza alcun significato, neppure visivo). E così via.
Insomma una regia e una scenografia velleitarie e sostanzialmente dilettantesche e noiose. Uno spettacolo che certamente fa rimpiangere la bellezza visiva (seppure a tratti discutibilmente ridondante) di Jenufa. Il regista è palesemente digiuno di rappresentazioni in teatro di opere liriche e l’accattivante, mistificante e usurpato richiamo dell’organizzazione cui appartiene (Fanny e Alexander) al mondo di Bergman è solo uno scadente “wishful thinking”. Dovrebbe rivedersi cento volte la registrazione dello splendido allestimento de “Le nozze di Figaro” di Martone del 2013 per imparare come si gestisce e valorizza un’opera teatrale di grande repertorio. Senza volere escludere a priori una rivisitazione in chiave moderna di uno spettacolo classico, purchè non velleitaria e in ultima analisi scadente che fa ovviamente rimpiangere (e molto) messe in scena più tradizionali ma in grado di valorizzare e non deprimere il capolavoro mozartiano. Per le rivoluzioni ci vogliono veri rivoluzionari e non ribellisti dilettanti convinti che “épater le bourgeois” con effetti speciali (o ritenuti tali) sia sufficiente a garantirsi qualità e successo! (Purtroppo scrivendo questa recensione negativa mi rendo conto di fare comunque un involontario favore alla regia perchè anche solo il parlarne – seppure male e addirittura talvolta proprio per questo motivo – è pur sempre una cassa di risonanza per una immeritata pubblicità).
La direzione di Mariotti non è stata esaltante e spesso diseguale: forse il Mozart della Zauberflöte non è particolarmente nelle sue corde. Troppo lente molte arie (e segnatamente la prima di Tamino e della regina della notte). E’ un’opera che per la sua stessa natura richiede un equilibrio particolare in quanto si trova costantemente in bilico fra la favoletta (non per nulla il libretto è di un impresario improvvisatosi librettista, Schikaneder, e diretto a un pubblico di bocca buona del tempo) e l’apologo agogico e paludato del trionfo del bene sul male. Un libretto non sempre facile da digerire e interpretare (chi non parteggia inizialmente per la regina della notte cui la figlia è stata sottratta?), spesso sconclusionato, con alcune figure un po’ grottesche come Monostatos e un po’ stralunate come Papageno/Papagena, e uno sviluppo dell’azione tutt’altro che lineare. E’ solo il genio mozartiano che è riuscito a trasformare questo potenziale disastro in un capolavoro e proprio a fronte di questa “politomia” la direzione musicale si trova costantemente di fronte a difficili scelte interpretative. Certamente le modestissime scelte registiche non hanno aiutato il direttore ma è certamente vero che abbiamo assistito a rappresentazioni di questa difficilissima opera musicalmente assai migliori (e in particolare va ricordata quella magistrale di Abbado, anni luce distante da quella di Mariotti).
Il cast. Evidenti, inaccettabili problemi di pronuncia della lingua tedesca – in un Singspiel! – da parte degli italiani. Ahimé la provincia e le obsolete scuole di canto rivolte solo al bel canto e al barocco italiano! Non per niente l’importantissimo genere musicale del Lied è colpevolmente e sostanzialmente sconosciuto nel belpaese. A parte questo il livello medio è apparso vocalmente di buona qualità e in particolare va segnalata l’ottima Pamina di Maria Grazia Schiavo (aiutata in questo dalla più bella aria dell’opera), che ha nelle sue corde tutti gli accenti del personaggio mozartiano. Quanto alla regina della notte (musicalmente ruolo chiave dell’opera) di Christina Poulitsi i suoi sopracuti sono perfettamente intonati ma ha qualche incertezza di emissione nel registro medio-alto. Tamino (Paolo Fanale) è tenore di ottima professionalità mentre il Sarastro del gigantesco Mika Kares ha una voce da basso perfetta nel ruolo anche se talvolta un po’ monotona. Il duo Papageno/Papagena, rispettivamente interpretati da Nicola Ulivieri e Anna Corvino non ha particolarmente impressionato. Purtroppo assolutamente sotto il minimo le tre dame e carini i tre fanciulli (vocalmente non ineccepibili) che però potevano essere scelti localmente senza pregiudizio alcuno (come già faceva 30 anni fa il teatro).
Come sempre il pubblico bolognese è indulgente (quando mai si sentiranno finalmente dei sacrosanti “buh” quando meritati? Ricordo un Ring di Bayreuth del 2010 splendidamente cantato e orchestrato – una vera meraviglia – ma con una messa in scena “de paura”, in occasione del quale la timida apparizione a mezzobusto del regista dietro il sipario socchiuso scatenò una salva di disapprovazioni tali da fare letteralmente fuggire – addirittura dal teatro penso – il malcapitato!) e esterna il proprio dissenso al massimo con un applauso più tiepido oppure non presentandosi alle rappresentazioni (diverso è il caso della “generale” dell’opera al termine della quale, all’uscita dal teatro, il team della gestione video è stato “omaggiato” da una meritata salva di “buh”). La “prima” fa caso a sé: qui predomina la presenza del bel mondo bolognese non particolarmente avvertito musicalmente (“e mira ed è mirato, e in cor s’allegra”…) e più che altro interessato agli intervalli, e soprattutto della claque (in questo caso veramente assordante e insopportabile nella quale in platea si è distinto uno scatenato piacione) che si combina con il successo opportunamente preorganizzato dalla sovrintendenza con la stampa locale, che non brilla certo per indipendenza e competenza (si leggano gli articoli di presentazione dell’opera: semplicemente il nulla a stampa). Per una recensione giornalistica sulla stampa seria e indipendente bisogna aspettare gli articoli di Carla Moreni sul Sole 24 ore o di Paolo Isotta sul Corriere della sera ammesso che prendano in considerazione un teatro oggettivamente non di primario interesse nazionale come il Comunale di Bologna. Quindi fiato alle trombe (e ai tromboni..) locali e che la festa (?) cominci….
PS A proposito di registi “creativi” segnalo questo gustosissimo articolo http://www.ilcorrieredellagrisi.eu/2012/05/come-diventare-un-grande-regista-a-la-page-in-25-mosse/
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Turandot – Milano La Scala 1 Maggio 2015
Biglietto da visita musicale dell’Italia (altro che l’ignobile “s-concerto” del 30 Aprile da me visionato registrato solo per onor di firma – vergogna!) la Turandot di apertura dell’EXPO è stata in tutto e per tutto all’altezza delle aspettative, iscrivendosi nelle produzioni di grande qualità che da sempre contraddistinguono le opere della Scala. Uno spettacolo molto bello dal punto di vista scenografico e musicale a riprova che l’Italia è paese dell’arte (quella vera, non il posticcio del “tenorino” piagnucoloso Bocelli).
Con buona pace di chi afferma che l’estensore di questo blog non è mai soddisfatto e critica per principio, posso affermare che tutto di questa produzione è di ottima-eccelsa qualità a partire dalla direzione di Riccardo Chailly, a finire con la regia di Nikolaus Lehnhoff e alle scene di Raimund Bauer. La Turandot di Nina Stemme è stata perfettamente algida come la parte richiede, con una voce perfetta per il ruolo e agghindata con bei costumi ma di tale complessità che gli spettatori si sono chiesti come riuscisse a cantare. Il Calaf di Aleksandrs Antonenko non è parso invece ben calzato nella parte, sforzando regolarmente negli acuti e con una presenza scenica piuttosto goffa e per certi versi indisponente. Buono l’Altoum di Carlo Bosi in una parte non facile. Un plauso particolare invece alla Liù di Maria Agresta, bellissima voce, sicuramente la vera protagonista dello spettacolo, infagottata purtroppo in un costume piuttosto assurdo e un voto solo sufficiente al Timur di Alexander Tsymbalyuk. Molto apprezzabili musicalmente e scenicamente invece i tre dignitari Ping, Pong e Pang con costumi perfetti a rifletterne la psicologia e un azzeccatissimo trucco facciale da clowns che ricordava il Joker della serie di Batman e il coro (anche se il meccanismo del “doppio” di Artaud con le maschere ha fatto da lungo il suo tempo). Turandot è opera che richiede grande equilibrio se si vuole evitare di cadere nella trappola di un orientalismo di seconda mano o di trasformarla in una fiaba sdolcinata centrata sul personaggio di Liù mentre in realtà si tratta di azione altamente drammatica che non vive certo del solo inflazionatissimo acuto di “Nessun dorma” (forse che “Non piangere Liù” è da meno?). Bellissimo il finale di Luciano Berio che ha sostituito quello tradizionale di Alfano, nell’ambito del quale la figura di Liù assurge a un ruolo primario che in altri casi risulta invece troppo sfumato. Purtroppo la diretta televisiva, anche se di ottima qualità, impedisce una visione d’assieme del palcoscenico e mi riprometto quindi di assistere a una rappresentazione in teatro. Ove notassi delle differenze redigerò un post integrativo.
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Aida – Milano La Scala 15 Marzo 2015
Abbandonati (fortunatamente) elefanti, cavalli, cammelli e altri animali che infestano l’Aida kitsch di Verona, viene qui recuperato il senso profondo di questa opera estremamente popolare nella quale, al di là del risibile polpettone del libretto (si citano anche le armi di Vulcano in un contesto egizio e un dio mai esistito Ftha!), si trovano veramente altissimi vertici musicali. Aida è titolo fra i favoriti della Scala (viene messa in scena ogni due-tre anni) e incontra l’incondizionato favore del pubblico anche in quelle parti orientaleggianti di maniera caratterizzate da eccessi di seconde eccedenti. Zubin Mehta è oggi al vertice dei direttori d’opera e anche nel caso in questione ha fornito una prova veramente maiuscola. Grande vecchio, con gesti misurati e pochi cenni del capo controlla perfettamente l’orchestra. Non una sbavatura, tempi staccati perfetti, valorizzazione perfetta del canto con le sonorità dell’orchestra sempre calibrate (grazie anche all’altissima qualità dell’orchestra della Scala). In questo contesto le voci dei protagonisti hanno avuto agio di esprimere al meglio le loro qualità. Tutti bravi i cantanti indistintamente: il re (Carlo Colombara), Aida (Maria José Siri che ha sostituito all’ultimo momento Kristin Lewis, inserendosi alla perfezione nel contesto dell’opera), Radamès (Fabio Sartori, che però dovrebbe perdere qualche Kg. altrimenti mette a repentaglio la stabilità del palcoscenico), Amonasro (Ambrogio Maestri) e Ramfis (l’intramontabile Matti Salminen). Ma sopra tutti Amneris (Anita Rachvelishvili): una voce drammatica perfetta e una grande presenza scenica che ha offerto il meglio di sè nella scena del giudizio di Radamès e che è stata giustamente osannata dal pubblico. Eccellenti le scene (se si eccettuano gli sventolati vessilli che certamente non facevano parte della coreografia egizia) e la regia del collaudatissimo Peter Stein; all’altezza della tradizione della Scala il corpo di ballo (che nella scena della consacrazione di Radamès ha evocato i wirling dervishes). Belli anche i costumi (anche se in nessuno dei dipinti egizi rimasti se ne trovano di uguali): insomma un grande meritatissimo successo, purtroppo a carissimo prezzo per gli spettatori (posto in platea 300 euro!!). Interessante notare che le scene richiedono ovviamente un cambiamento rispetto al Lucio Silla rappresentato 15 ore prima. Meditate gente di Bologna che asserite sia impossibile ospitare i concerti sinfonici al teatro comunale per la difficoltà di smontare e rimontare le scenografie delle opere…
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Lucio Silla – Milano La Scala 14 Marzo 2015
Terza opera giovanile di Mozart (composta a 16 anni!) dopo Mitridate re di Ponto e Ascanio in Alba con un libretto (molto improbabile) al quale contribuì anche Metastasio (intervento non particolarmente gradito dal compositore salisburghese a causa della necessità di porre mano a parti già terminate) è opera seria con happy end come l’ultima opera mozartiana La clemenza di Tito. Opera poco rappresentata e ripresa solo negli ultimi due decenni ha alcune arie certamente di qualità (ma l’opera nel complesso è troppo lunga e molto ripetitiva nella struttura delle sue arie rigidamente barocche) ed è prodigioso immaginare un sedicenne in grado di affrontare una partitura così complessa e capace di dirigere l’orchestra in occasione delle prime rappresentazioni. Bene ha fatto quindi La Scala a inserirsi fra i teatri artefici di questa renaissance. La produzione è affidata all’ottima bacchetta di Marc Minkowski (molto applaudito) con la regia di Marshall Pynkoski (che ha voluto sottolineare una sorta di rapporto incestuoso fra Lucio Silla e la sorella Celia di dubbio gusto). L’ambientazione è quella di una Roma settecentesca ma costumi e scenografia si adattano perfettamente alla vicenda e va lodata l’inserzione di un ottimo balletto che completa felicemente la messa in scena. Nel cast vocale l’assenza del tenore Rolando Villazón bloccato da una noiosa bronchite non si è fatta sentire. Il tenore Kresimir Spicer ha una bella voce, grande presenza scenica, perfetta intonazione e ha interpretato l’aria finale (nella quale vi sono almeno 10 battute di canto non accompagnato) in modo magistrale. Buone anche le voci delle altre interpreti. Cecilio (Marianne Crebassa) dopo una prima aria con qualche incertezza è cresciuta via via dando luogo a una prova convincente. Buone anche le prove di Inga Kalna (Cinna) e Lenneke Ruiten (Giunia che però è carente di emissione) e accettabile quella di Giulia Semenzato come Celia. Inutile ribadire che al di là delle valutazioni specifiche si tratta di staging di alta qualità come è tradizione del teatro meneghino: La Scala, nel panorama italiano, è un altro pianeta come anche certificato dallo splendido programma annunciato per l’EXPO.
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Don Pasquale – Bologna Teatro Comunale 18 Febbraio 2015
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Non sono certo un fan della Scuola dell’Opera Italiana viziata da alcuni peccati originali che non paiono eliminati e neppure eliminabili: non si mette in moto un meccanismo così costoso solo per voglia di protagonismo. Un discorso in materia sarebbe opportuno e forse ne farò l’argomento di un mio prossimo post. Ho però apprezzato l’esecuzione del Don Pasquale, un’opera che se messa in scena con spirito di umorismo e senso della misura (niente a che vedere con la spocchiosa, dilettantesca e pretenziosa Butterfly cui abbiamo assistito sabato scorso) può diventare un gustoso gioiellino. Ci sono tutti gli elementi dell’opera buffa: il vecchio gabbato, la moglie che diviene insopportabilmente bisbetica, i due giovani innamorati etc. e una musica deliziosa. Ebbene ieri sera mi sono divertito a questa messa in scena moderna, fresca e spiritosa con vespino, un Ernesto anni ’60 e un ottimo mimo (Daniele Palumbo). Nella scenografia non mancano anche le citazioni cinematografiche: Audrey Hepburn in “Vacanze romane”, Groucho Marx come notaio, Peter Sellers come ispettore Clouseau. Nel cast vocale svetta la Norina di Ksenia Titovčenko: una bella voce lirica e brillante, un’ottima, spiritosa presenza scenica. Deve solo imparare a controllare meglio l’emissione degli acuti, talvolta un po’ sparati, ma certamente una voce con ottime prospettive. All’estremo opposto si colloca il tenore Boyd Owen. Una voce con forti problemi di emissione, recitativi spesso poco intonati e nessuna capacità scenica di intepretare il personaggio, tragicamente evidente nella scena finale della serenata (con tanto di vocalists) dove ha goffamente tentato di imitare il grande Elvis. Nella norma gli altri membri del cast. Una buona direzione d’orchestra (Giuseppe La Malfa) che ha però dovuto confrontarsi anche con carenze dei corni, che hanno fornito una prestazione in alcuni puntI insoddisfacente.
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Madama Butterfly revisited – Bologna Teatro Comunale 16 Febbraio 2015
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Questa è il messaggio e-mail che ho inviato al teatro Comunale. Mai come in questo caso i commenti sono graditi….
La disastrosa “prima” della Butterfly (con un “soprano” che al primo acuto ha tirato un stecca “de paura”) ha messo subito in luce l’inadeguatezza della nuova direzione con il caos (invano denegato) dei direttori d’orchestra, lo scambio delle compagnie, il rifiuto della prima compagnia etc (v. il relativo post ). Ma gli spettatori della “prima” hanno pagato fior di quattrini per una compagnia che non ha cantato e il minimo che ci si sarebbe aspettato erano scuse formali. Nulla! In tempi purtroppo lontani esisteva il dignitoso istituto delle dimissioni mentre oggi un nuovo sovrintendente nominato senza concorso (e che ha dato un poco urbano benservito a Ernani) non sente alcun obbligo verso chi gli garantisce lo stipendio. La poltrona innanzitutto, altro che dignità! Questa è probabilmente solo la prima perla del binomio ferrarese Ronchi (probabilmente assente per S.Remo, temo…) Sani, peraltro ampiamente documentata dal mio blog e che acquisisce quotidianamente le adesioni degli spettatori giustamente indignati (siamo oltre i 100!). Ad minora…
G.Neri













