Avevamo apprezzato Alexander Romanovsky da quando a 17 anni aveva vinto il Busoni ma purtroppo abbiamo assistito nel concerto in questione a una preoccupante involuzione. Nell’esecuzione del secondo concerto di Brahms ha infatti prevalso l’aspetto esteriorizzante, la gestualità esasperata (ogni attacco del pianoforte sembrava una aggressione alla tastiera) mentre è mancato totalmente l’approfondimento musicale per una partitura dalle mille sfaccettature che segna l’ingresso del compositore amburghese nella sua ultima fase, quella della introspezione, della rarefazione insomma del dettato musicale. E sorprendentemente anche l’esecuzione tecnica non è risultata immacolata (nel quarto tempo si è avuto anche un vuoto di memoria – o addirittura un “pasticcio” – coperto dall’orchestra e risolto dall’esecutore con molto mestiere). Naturalmente l’armamentario tecnico di Romanovsky è di prim’ordine (eccezionali i passaggi di ottave nel secondo e nel quarto tempo) ma questo certamente non è sufficiente per una composizione che unisce a una difficoltà tecnica trascendentale un percorso musicale di amplissimo respiro. E senza dubbio il pianista di Dniprodzeržyns’k non è stato aiutato da un’orchestra e da un direttore “non in serata”. Si inizia con una intonazione incerta dei corni all’inizio del primo tempo (una pecca ripetuta anche all’attacco e all’interno dell’oratorio beethoveniano della seconda parte del concerto) e con un relativo tempo troppo allargato per finire con un costante affanno a concertare i tempi con il pianista. E anche i bis solistici (lo studio n. 12 dell’op. 10 di Chopin e una trascrizione di un preludio Bachiano) non hanno ecceduto un livello medio. Peccato. Nella seconda parte il direttore non riesce a scaldare la platea con un’esecuzione non memorabile della Leonora n. 3; nello scarsamente eseguito oratorio Beethoveniano (Christus am Ölberg) gli interpreti vocali non sono stati tutti all’altezza del compito. In particolare non è risultata convincente la soprano Patrizia Biccirè, una bella voce lirica – belli i suoi acuti scintillanti ma di taglio rossiniano – che però non si trova a suo agio in una partitura seria e talvolta drammatica e la cui emissione è spesso sovrastata dall’orchestra (complice il direttore). Nella norma il tenore Daniel Kirch mentre di grande qualità è stata la performance del basso David Steffens, voce possente e piena, purtroppo in una parte fin troppo ridotta. Perché poi nel libretto di sala (carta patinata con molte pagine) non sia presente il necessario testo dell’oratorio – dal momento che i sopratitoli non sono disponibili – è un mistero. Un concerto di certo non memorabile.
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