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Di sicuro il Guillaume Tell
….non è il capolavoto di Rossini e la decisione di rappresentarlo in forma pressochè completa è un’impresa molto complessa per qualunque teatro d’opera, come testimoniato dai pochissimi esempi recenti (l’unica altra occasione recente che ricordo è il Rossini festival). E non è solo la sua abnorme lunghezza (oltre 5 ore ma ci sono altri esempi come quelli wagneriani) ma soprattutto la sua disuniformità nella quale le parti cantate sono inframmezzate da lunghi interemezzi puramente orchestrali che spezzano l’azione teatrale e che non sempre sono musicalmente di alto livello. Va ricordato che Rossini compose l’opera (l’ultima) mentre si trovava in campagna e si dedicava per buona parte della giornata alla pesca all’amo. Questo per dire che l’integrale del Guillaume Tell richiede una esecuzione musicale e una regia di altisssimo livello e non è questo il caso dell’edizione scaligera dove la regia è, a essere magnanimi, scellerata. Detto in modo provocatorio non è il nome di Muti che fa un (o una) regista di alto livello. Qui siamo in una scena lugubre (si sarebbe voluto richiamare Metropolis di Fritz Lang ma il richiamo è decisamente fallimentare). La scena è costantemente immersa in un’atmosfera lugubre con costumi e scenari sui toni del grigio a partire dai due casermoni stile DDR che incombono rappresentando volta a volta prigioni, abitazioni e altro e che vengono mossi a scacchiera. Il coro, che tanta parte ha nell’opera, è agghindato da operai della grande depressione ed è dotato (questo proprio non si capisce) di tablet luminosi a luce bianca accesi e spenti senza alcun costrutto e che irritano lo spettatore. Il bosco da cui si appalesano nel buio i combattenti del cantone che si unisce a quello di Tell è dotato di lucine colorate che si accendono e si spengono come quelle di un alberino di natale. Il racconto di Arnold della morte del padre ha un retroflashback con carnefici che si accaniscono sul povero malcapitato che alla fine, con una scelta di gusto infame, viene crocifisso e mancano solo i soldati che si giocano le vesti e il centurione che scaglia la lancia sul costato della vittima. Nel primo duetto dei due innamorati Arnold e Mathilde si appalesano delle sorte di dame di compagnia dei due protagonisti il cui ruolo è oggetto di indagine di psichiatri di fama mondiale. Gesler è avvolto in una cappa rossa che vorrebbe rappresentare la sua scelleratezza ma che invece ricorda alcune rappresentazioni medievali di incappucciati (una sorta di Dart Fener ante litteram), alla testa di scherani i cui costumi ricordano quelli delle guardie papali (e non è mancata una scena con incappucciati stile Ku Klux Klan). Il coro che si ribella al tiranno è dotato di armi che vanno dallo spadone medievale alla mitraglietta Sten. E si potrebbe continuare a enumerare le scelte registiche da grand guignol del tipo “voglio e non posso” ma non vorrei annoiare il lettore così come mi sono annoiato io in sala. La ciliegina sulla torta è stata la coreografia delle molteplici parti danzate utilizzate per accompagnare i brani puramente orchestrali che ha avuto il suo punto di minima in una scena lunghissima che avrebbe dovuto rappresentare il contrasto fra gli invasori e il popolo, agghindando gli oppressori come modelli di una sfilata di moda e gli oppressi come schiavi sottomessi e violentati. Un scelta coreografica che ha scatenato i buh non solo del loggione ma anche quello della platea al quale anche io per una volta mi sono associato. Un disastro totale, registicamente parlando. Ben diversa è stata invece la parte musicale diretta da un Mariotti in grande spolvero che ha guidato la complessa e spesso prolissa partitura con grande professionalità a cominciare dalla famosa ouverture e con una orchestra ancora una volta all’altezza del complesso compito. Un plauso particolare al primo violoncello che fin dalle prime note iniziali ha saputo esprimere tutto il pathos della vicenda. Quanto alla compagnia di canto Pertusi come Tell è stato assolutamente all’altezza della sua fama e ha strappato anche un lungo applauso a scena aperta nell’aria con il figlio prima della famosa mela. Ma anche l’Arnold di Korchak non è stato da meno in un ruolo impervio. Per una volta hanno svettato le parti maschili mentre meno incisiva è stata la prova di Jicia come Mathilde anche se a sua parziale discolpa va detto che la parte che Rossini le attribuisce non è particolarmente felice. Una voce di buona ma non eccelsa qualità senza alti e bassi. Nella norma gli altri cantanti. Dopo i calorosi buh non so quale sia stata l’accoglienza finale del pubblico in quanto appena terminata l’opera alle 23.40 sono uscito rapidamente: spero che abbia sonoramente fischiato la regia e la coreografia. In totale comunque uno spettacolo assolutamente non all’altezza della tradizione scaligera e sarebbe bene che il sovrintendente rifiutasse registi o direttori non all’altezza del loro compito. Un piccolo particolare che sorprende piacevolmente chi è abituato alla non castigata maleducazione bolognese degli spettatori che accendono il cellulare durante la rappresentazione: qui non solo viene raccomandato di spegnere il cellulare ma le maschere che individuano i decerebrati che si dilettano del telefonino intervengono per fare spegnere l’aggeggio. Ma la scala non è il provinciale comunale “nouveau” di Bologna.
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(Giovanni Neri 78)
| Direttore | MICHELE MARIOTTI |
| Regia | CHIARA MUTI |
| Scene | ALESSANDRO CAMERA |
| Costumi | URSULA PATZAK |
| Luci | VINCENT LONGUEMARE |
| Coreografia | SILVIA GIORDANO |
Cast
| Arnold Melchtal | Dmitry Korchak |
| Guillaume Tell | Michele Pertusi |
| Walter Fürst | Nahuel Di Pierro |
| Melchtal | Evgeny Stavinsky |
| Gessler | Luca Tittoto |
| Rodolphe | Brayan Ávila Martinez |
| Leuthold | Paul Grant |
| Ruodi | Dave Monaco |
| Mathilde | Salome Jicia |
| Jemmy | Catherine Trottmann |
| Hedwige | Géraldine Chauvet |
| Un chasseur | Huanhong Li |





